testamento_maria_toibin

GIULIA RANDONE | Che nome dare a un genitore che perde il figlio?
Chiamiamo orfani i figli rimasti senza genitori ma non abbiamo ancora trovato un modo per indicare una madre o un padre che perdono il figlio. Come se la nostra lingua fosse refrattaria ad ammettere che chi genera la vita possa sopravvivere alla morte della propria creatura. Il dolore resta senza traduzione. Michela Cescon, invece, costruisce un monologo lento, cadenzato dalla rabbia e rischiarato dall’amore, e a quel tabù dà un nome: Maria. Maria, madre di colui che molti ritengono il Salvatore. Maria, madre di un figlio morto per una missione incomprensibile e inaccettabile. Le ultime parole pronunciate da Cescon prima che cali il sipario escono dritte dalla gola, senza alcuna levigatura, il grido straziato di una voce che non urla mai: “Non potevamo essere risparmiati?”

Il testamento di Maria, il monologo di Michela Cescon diretto da Marco Tullio Giordana che ha debuttato in prima nazionale al Teatro Gobetti di Torino il 17 novembre, è la veglia solitaria di una donna fuori dal tempo. Perché – per fortuna – a Cescon e Giordana non interessa mostrare una Madonna moderna, magari in versione blasfema o pop, ma dare voce a una donna comune, protagonista di una storia incredibile. Scansata ogni tentazione modernizzante, sulla scena appare ciò che sembra attuale ed è invece, semplicemente, eterno: il complesso mondo interiore di una madre. Con la lingua secca e sferzante di Colm Tóibìn, autore del romanzo da cui è tratta la drammaturgia, Maria rievoca la gioia dei primi anni della maternità, quando viveva all’unisono con il figlio e la settimana era scandita dal riposo dello shabbat, poi il progressivo distacco del suo bellissimo bambino, conquistato da un’idea e per quella stessa idea torturato e messo a morte.

L’impatto della scena è notevole e il merito va a Gianni Carluccio, che con grande sensibilità fa dialogare scenografia, luci e costumi. Michela Cescon indossa una lunga tunica chiara ed è immersa in uno spazio bianco, insieme ampio e raccolto. La stanza – un tavolo appoggiato su cavalletti, due sedie e due finestre – è animata da una sapiente narrazione di luci, che evoca fantasmi e ricordi incancellabili, assemblando paesaggi diversissimi come la brulicante “città del futuro” Gerusalemme e la collina insanguinata del Golgota. Questa scena, che trae ispirazione da un’immagine di Mamma Roma di Pasolini e dalla pittura del Quattrocento, ha la forza delle prospettive metafisiche di De Chirico. Le nicchie ad arco sullo sfondo ricordano i monotoni porticati del pittore surrealista, panorami tagliati dalla luce e percorsi dall’inquietudine che stia per accadere (o sia appena accaduto) qualcosa di sconvolgente.

Michela Cescon attraversa lo spazio scalza, calcando il palco con decisione. I piedi per la verità sono quasi sempre nascosti dalla tunica bianca e appaiono solo a momenti, ma sprigionano un’energia tangibile. Invisibili, sostengono la donna nel suo cammino a ritroso nella memoria e nel percorso circolare lungo una stanza trasformatasi in prigione. Poi, d’improvviso compaiono da sotto l’abito, in un bagliore di carne. Alla notizia della condanna a morte – “a quel punto Pilato lo mise nelle loro mani” – un piede si stacca leggermente dal terreno e la figura statuaria di Maria resta sospesa, in procinto di spezzarsi. Prima che si verifichi il crollo, un’ombra pietosa calerà su quel corpo di dolore, nascondendolo al nostro sguardo. Tale postura precaria, in equilibrio su un piede, fotografa l’anima di questa umanissima Maria: non preannuncia soltanto la sua discesa nel dolore più profondo, ma anche il balzo ferino che è pronta a spiccare contro chi le ha portato via il figlio e ora esige la sua complicità per stenderne l’agiografia.

Lo spettacolo, prodotto dai teatri stabili nazionali di Torino e del Veneto in collaborazione con Zachar Produzioni, trova in Michela Cescon un’interprete appassionata e convincente, a dispetto di un testo che a tratti diventa verboso e di una regia fin troppo discreta, che non approfondisce le proprie scelte. Come quando, verso il finale, proietta su un tulle alle spalle di Maria il volto dell’uomo della Sindone e poi sembra non sapere che farsene.