LAURA NOVELLI | Un oratorio laico. Una preghiera pietosa a vantaggio degli ultimi della Terra, quelli più vicini a Dio, ammesso che Dio esista. Può essere letto così l’ultimo, intenso, lavoro di Ascanio Celestini, fabulatore instancabile di una sacralità umana che in “Laika” – debuttato al Teatro Vascello di Roma per il RomaEuropa Festival 2015 – costruisce la storia di una galleria di emarginati per riportarci al nocciolo di quella pietas virgiliana di cui abbiamo smarrito la memoria e la forza.
Un filare di piccole lampade bianche a terra, una tenda rossa che cela una catasta di casse di plastica e il contrappunto musicale della fisarmonica di Gianluca Casadei: basta poco a Celestini per raccontare, col piglio agrodolce di sempre, un disagio sociale che sta sotto gli occhi di tutti e che nella circolarità di una lingua mossa da continue ripetizioni cuce insieme le storie di un barbone, di un facchino di colore licenziato ingiustamente, di una “donna con la testa impicciata”, di una vecchietta e di una prostituta che assumono i lineamenti di visioni concrete, materiche, senza mai perdere però un afflato di elegia, di poeticità.
Cappotto lungo, camicia bordeaux, capelli leggermente ingrigiti, Celestini è un uomo cieco che si rivolge con pacata violenza ai “signori del bar”, silenziosi testimoni di una confessione che parte dal Cielo, da quel Cielo che “si sta abbassando di chilometri anche se non c’è una letteratura scientifica a proposito”. Quel Cielo da cui Dio ci guarda e ci obbliga a piangere della sua assenza. Quel Cielo che un astrofisico di fama come Stephen Hawking ha indagato svuotandolo di ogni trascendenza. In questo stesso Cielo nel 1957 fu lanciata la cagnetta Laika, vittima di una missione spaziale sovietica da cui la povera bestiola non è mai tornata. La sua vicinanza a Dio è dunque direttamente proporzionale alla distanza di Dio dal mondo. O forse Dio non sta in Cielo; prende forma umana ogni qual volta ci sia un povero Cristo che perde il lavoro, che dorme per strada, che esce di senno, che si ubriaca per non sentire la sofferenza del vivere.
Il monologo di Ascanio accosta dunque elementi, personaggi e riferimenti diversi e li fa straordinariamente convergere in una coerenza narrativa che non perde mai di vista ogni singolo anello della catena. Questa caparbia teatralità della scrittura si fa qui forza sociale, supera la storicità di lavori precedenti cui pure somiglia molto (penso a “Radio clandestina”, “Fabbrica”, “Scemo di guerra”) per diventare un’invettiva, una rivoluzione, un bisogno di umanità.
Nel ritmo estremamente musicale della parola si immettono poi le note di una fisarmonica malinconica e ogni tanto l’assolo viene rotto dalla voce di Alba Rohrwacher: incarna Simon Pietro, alter ego di questo Gesù/Ascanio cieco come Edipo (e fitto di rimandi alla tragedia sofoclea è anche il recente fil dell’attore e regista romano “Viva la sposa”) che non compare mai. Ma che c’è o vorrebbe esserci o forse – proprio come il Cielo – non c’è mai stato. E si ride a tratti, si cede all’arguta ironia con cui l’autore descrive e racconta i paradossi appunto di un Dio fin troppo fragile.
E allora, mentre l’Europa vacilla sotto l terrore dell’Isis, questo piccolo capolavoro ricapitola il senso di un messaggio evangelico tradito dalla Storia e dalla realtà. Perché laddove non c’è giustizia sociale può sempre esserci un atto di carità. E laddove il Cielo sembra sordo ai nostri lamenti, c’è sempre un uomo o una donna che può accoglierli. In attesa che Laika torni sulla Terra a raccontarci la sua verità.