RENZO FRANCABANDERA | Lo sciocco è quello che davvero crede che il batter d’ali della farfalla possa provocare un tifone dall’altro lato del pianeta. Il saggio quello che ne nutre un ragionevole dubbio, che non ne esclude aprioristicamente la possibilità; piuttosto la analizza attraverso la Storia, senza rassegnarsi, come essere umano, ad essere di quest’ultima solo un passeggero senza biglietto, ma allevando nel frattempo bachi da seta per prepararsi ad essere protagonista del cambiamento.
La bellezza della Storia è che la maggior parte delle cose interessanti non succede al centro, ma in periferia. E nonostante tutti si ostinino a vivere il centro come precipitato del proprio tempo, in realtà è quanto avviene ai bordi che conferma se e quanto il centro sia tale. E questo si dà anche in geometria. Solo alcune figure geometriche regolari (quindi l’astratto) al mutare di dimensione mantengono intatto il proprio centro. Per non parlare del fatto che esistono talmente tanti centri possibili, incroci di altezze, vie tangenti, vie mediane, che persino un crepaccio lungo il confine fra Italia e Slovenia, o una barca in mezzo al Mare di Trieste da cui due passeggeri osservano un’esplosione distruggere una spiaggia possano diventare Storia.
E può diventarlo un giovane inglese ventenne che sogna di giocare nell’Arsenal ma si trova impegnato nella naja su un fronte di guerra, o un prete doncamillo, dai ferventi ideali. O un giovane 15enne che va a puttane a perdere la verginità in una casa chiusa, servito da una maitresse mezza sdentata. Perché davvero la Storia non ammette esclusioni.
Esempi di bella costruzione letteraria di questo teorema sono stati per molti anni i romanzi del collettivo Wu Ming (Luther Blissett), in cui questo senso della Storia come intreccio di vicende piccole che tutte insieme costruiscono il mosaico si respira fortemente. O le graphic novel di Gipi.
E’ stata quindi una piacevolissima sorpresa immergersi per un’ora e venti in sala al Verdi di Milano per il debutto di Esodo, il secondo atto del progetto Pentateuco de La Confraternita del Chianti, un episodio creativo originato da un monologo di Diego Runko (che era stato premiato nel concorso Giuseppe Bertolucci per la drammaturgia civile), ripreso e riadattato da Chiara Boscaro con Marco di Stefano, che ne firma la regia.
Pentateuco è un progetto ideato e realizzato da La Confraternita del Chianti, compagnia milanese – fondata dalla drammaturga Chiara Boscaro e dal regista e autore Marco Di Stefano – da tempo attenta ai temi della contemporaneità affrontati con un particolare sguardo drammaturgico che coinvolgerà cinque attori e altrettanti partner internazionali (più il Teatro Verdi, collaboratore dell’intero progetto) per raccontare cinque storie di migrazione che si concentreranno su diversi aspetti di questa caratteristica dei popoli biblici come del nostro tempo: la differenza linguistica (Genesi), l’esodo degli italiani dall’Istria (Esodo), la disciplina come modello di vita (Levitico), la clandestinità (Numeri), la legge nella società occidentale (Deuteronomio). Dopo Genesi, Esodo è il secondo movimento di questo polittico.
Parliamo per Esodo tecnicamente di un monologo, ma il talento e la fortuna poliglotta di Diego Runko (istriano di Pola) trasformano questa costruzione in un meccanismo scenico con notevoli variazioni tonali, che prende per la giacchetta lo spettatore e lo sbatte qui e lì nel tempo e nello spazio, in un ping pong fra oggi e ieri al confine fra Giulia, Istria e Dalmazia, fra l’indomani della seconda guerra mondiale e l’oggi, fra il prima e il dopo della Jugoslavia.
In scena c’è lo stesso Runko, che con grazia e ben guidato da una regia pulita, con piccoli ma incisivi movimenti racconta queste storie, cambiandosi e trasformandosi in tutti questi personaggi a turno, in sequenza, e parlando italiano, inglese, dialetto friulano, sloveno, croato. E noi a leggere e un po’ a perderci nei sovratitoli, come chi si trova in quei posti di frontiera oggi come allora pericolosi, ma in cui passa il treno della vicenda umana.
E’ quindi lecito non riuscire a leggere tutto, affannarsi per capire, come chi cerca di aggrapparsi alla singola parola, senza comprendere che il senso è nel discorso generale. Ma poco alla volta questo ci viene disvelato dallo spettacolo e se ne rimane progressivamente avvinti, perché è una Storia. Un nipote racconta la storia del nonno, storie di guerra, di esodi al di qua e al di là del confine. Il filone è lo stesso di Italianesi di Saverio La Ruina, storie di muri e barriere, di fughe e liberazioni, di stermini di massa e prigionie; guardati attraverso lo sguardo di un adolescente bacchettone che qui sogna l’America e chissà se la vedrà mai.
Il costrutto teatrale funziona per quattro fondamentali motivi:
1 – mantiene la barra dritta su un testo ben scritto e non cerca barocchismi scenici che distolgano dalla parola, mantenendo quindi coerente l’impianto da inizio alla fine.
2 – il ritmo narrativo e l’interpretazione corrono paralleli per tutto lo spettacolo con l’attore che manovra il ritmo pur nella fissità del tempo scenico legato anche alla proiezione dei sovratitoli.
3 – Esodo si compie in sé, non cerca rimandi e concetti esterni. E’ un’opera compiuta e che segna un passaggio di maturità di un gruppo tenace, in crescita, che ha scelto anche per la pratica scenica una dimensione non facile, come la residenza nella periferia della cintura milanese.
4 – si inizia a malapena ad avvertire la sazietà e il viaggio termina. Ma senza terminare veramente, perché come tutte le opere dal sapore vagamente pasoliniano, con quel gusto per il primo piano sul sorriso sdentato del miserabile e per lo zoom sugli orizzonti del tempo in cui l’uomo si perde, accompagna chi vi ha assistito fuori dalla sala per un bel pezzo di strada.
E a distanza di qualche giorno, a differenza di certi spettacoli che usciti di sala iniziano ad evaporare a velocità imbarazzante, ricordo ancora molte cose della pièce: l’ironia, il dramma, il dolore, l’umanità, il profumo della vita, il fetore della morte. E non è poco.