FRANCESCA GIULIANI | La solitudine di un uomo che tenta di riconquistare la sua mente persa fra fantasmi e utopie, fra presente e passato alla ricerca di un futuro nel quale non riesce a trovare una possibile via di fuga. La vita e la morte di quell’uomo, raccontata attraverso la testimonianza diretta di registrazioni audio tradotte dalla voce e dal corpo dalla nipote attrice. È Gianni, lo spettacolo di Caroline Baglioni, prodotto da La società dello spettacolo, vincitore del Premio Scenario Ustica per il teatro 2015, visto in questi giorni in residenza all’Arboreto Teatro Dimora di Mondaino ed oggi e domani a Teatro Litta di Milano per la rassegna Scenario.
L’attrice è in scena vestita di un lungo abito viola, travolta e nascosta da una gigantesca montagna di scarpe che tiene strette tra le braccia. Dopo averle gettate a terra si ferma e inizia a cercarne due da indossare. Una scarpa da uomo e una da donna faranno traballare quell’esile corpo rispecchiando anche fisicamente l’ambivalenza di una mente fuori centro, in cerca di un prima e di una normalità che non si sa bene poi quale sia. In quell’alternanza di genere misto, dove la donna e l’uomo si confondono, l’attrice porterà in scena quadri viventi dello zio mentre registra i pensieri su quelle audiocassette che verranno ritrovate anni dopo e faranno da drammaturgia allo spettacolo.
I racconti di vita – gli amici immaginari, il vasto repertorio di cantilenanti canzoni italiane che segnano gli anni a cavallo tra fine anni settanta e inizio anni novanta, la ricercata normalità, le donne mai avute e una madre spesso ingombrante – si rincorrono attraverso le drammatiche coreografie corporee della Baglioni. Uscendo per piccoli attimi da quel personaggio così potente quasi per prendere di nuovo fiato si toglie quelle scarpe spaiate per cercarne di nuove. La scelta drammaturgica è chiara fin da subito. Due stanze della memoria sono sulla scena, disegnate da confini immaginari ben precisi. Una è giocata dalla Baglioni che ricrea con lo spostamento delle scarpe geometrie di luoghi vivibili dal suo corpo svuotato di personaggio. L’altra quella abitata dallo zio è lei stessa a descrivercela precisamente durante lo spettacolo, facendocela vedere. Si entra e si esce continuamente da questi due spazi seguendo la precisione ritmica e gestuale dell’attrice. Un attimo di buio, un respiro e siamo di nuovo dentro. È l’automatismo di gesti ripetuti tra un tiro di sigaretta, una tosse e la schiena ricurva, a far rivivere sulla scena quel corpo assente. Sono le parole comiche e tragiche allo stesso tempo che nel misto di italiano e dialetto umbro ci assalgono potentemente replicando i discorsi precisi e ripetitivi fino all’assurdo di quel personaggio che non si capisce bene chi sia. È suo zio ma potrebbe essere il brandello infinitesimale di ciascuna delle nostre vite gettate a capofitto in un mondo sociale e politico nel quale spesso non è facile trovare un punto in cui aggrapparsi.
La solitudine performativa dell’attrice in scena rende pienamente l’idea di quella vissuta dal personaggio in un crescendo che porta alla bellissima danza finale di liberazione che se da una parte segna il momento di fine vita dello zio dall’altra travalica nell’aperta dichiarazione poetica della nipote attrice, solo ora totalmente libera di quel corpo scenico del quale non resta che una scarpa e una voce re