NICOLA ARRIGONI | «Nell’estate del 1956, Hannah Arendt scriveva all’amico e maestro Karl Jaspers di un conflitto millenario tra filosofia e politica emerso alle origini della tradizione occidentale, più precisamente a partire dal processo di Socrate, cioè da quando la polis processò il filosofo», scrive Ilaria Possenti nell’introduzione a Socrate di Hannah Arendt, un testo intenso e che ci interroga sul senso di democrazia, sulla necessità di avere punti di riferimenti fissi e immutabili: le idee platoniche?, sulla liquidità di Socrate. In tempi in cui in nome della sicurezza si vorrebbe sacrificare un po’ di nostra libertà, il testo di Arendt ci aiuta a capire che questo rischio non vale la pena di essere corso, perché poi ripercorrere la strada inversa sarebbe difficile, se non impossibile. Arendt non si limita a raccontare il rapporto di Socrate con la polis che non lo comprese e lo lasciò morire, non si limita a mettere in evidenza come il rapporto con il suo allievo, Platone finì per metterlo in ombra, ma soprattutto racconta di «una visione socratica della condizione umana, in qualche modo intesa come condizione ‘politica’, che dovrebbe aiutarci a ripensare da capo il senso della vita della polis, i suoi rapporti con l’etica e la conoscenza, i tanti dualismi della nostra tradizione (verità e opinione, pensiero e azione, mente e corpo) e l’oggetto stesso della ‘meraviglia’ filosofica – la pluralità – che ci unisce, ci distingue e ci attraversa».
E’ in questa prospettiva che il testo di Hannah Arendt ci interroga al di là della figura di Socrate, ma recuperando nel volatile Socrate una capacità di dialogo, un’attività dialogica che porta nel confronto con l’altro alla definizione di una verità possibile, verità comunque non assoluta che trova la sua necessitata possibilità metamorfica nell’azione continua del dialogare. Ecco secondo Arendt Platone tradisce questa fluidità dialogica e dialettica del maestro Socrate per inaugurare un approccio metafisico alla verità, soprattutto con l’elaborazione del mito della caverna.
E pare sintomatico in merito quanto scrive Arendt: «Il fatto che Platore raffiguri gli abitanti della caverna come congelati, incantati di fronte a uno schermo, senza alcuna possibilità di fare qualcosa o di comunicare l’uno con l’altro, rientra fra gli aspetti enigmatici dell’allegoria. (…) L’unica occupazione degli abitanti della caverna è fissare lo schermo; è chiaro che amano il vedere fine a se stesso, indipendentemente da ogni bisogno pratico. (…) Platone li rappresenta come potenziali filosofi, impegnati a fare, in condizioni di oscurità e ignoranza, la stessa cosa che il filosofo fa alla luce del sole e con cognizione di causa». La suggestione offerta da questo passaggio è tutta contemporanea, è la condizione dell’homo videns di oggi, ma è anche una sorta di estatica contemplazione e di ricerca di icone che forniscano verità imitabili ma non discutibili con la morte della polis, ovvero di quel confronto fra cittadini che è nucleo fondante della democrazia, dell’utopia della democrazia. L’estatica contemplazione contrapposta al dialogo socratico nella convinzione che «quando pensiamo, ci rapportiamo a noi stessi come se fossimo in due in quell’uno che appare agli occhi degli altri, che grazie a questa esperienza riflessiva possiamo articolare l’esperienza filosofica della meraviglia, e cominciare a dubitare, contraddirci, farci delle domande; che, infine, la solitudine del pensiero, in quanto animata da rappresentazioni, è ancora in contatto con il mondo comune e parte integrante del nostro essere e vivere con gli altri». È questo aspetto che rende interessante e assolutamente utile la lettura di Socrate di Hanna Arendt, una lettura che ci incoraggia ad aprirci al dialogo in tempi che paradossalmente poterebbero nella direzione opposta.
Hannah Arendt, Socrate, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2015, pagine 128, 11 euro.