ALESSIO DEGIORGIS | Dieci giorni l’anno, Torino ricorda di essere stata una delle realtà più interessanti del cinema italiano. Sono le giornate novembrine del Torino Film Festival, giunto quest’anno all’edizione numero 33. Oltre 200 film in programma che spaziano dal cinema d’autore e sperimentale, senza dimenticare una proposta più commerciale, rappresentata dalle anticipazioni di film che saranno prossimamente distribuiti nelle sale. Dopo anni segnati dalla girandola di direttori artistici (Nanni Moretti, Gianni Amelio, Paolo Virzì, nello spazio di poche stagioni) che ha certamente contribuito a promuovere mediaticamente il festival, la direzione artistica è affidata a Emanuela Martini, a sostegno di una rassegna ancora in cerca di un’identità definita. La neonata Festa del Cinema di Roma e la celebrata Mostra del Cinema di Venezia dispongono di altre risorse e altra visibilità ed è forse più utile pensare a un proposta alternativa che non a una sterile rivalità fra realtà così diverse. Torino porta in dote un passato fatto di cinematografia giovane e sperimentale, in che misura riesce a restare fedele a questa tradizione?
Una risposta a questa domanda giunge solo in parte dalla sezione principe, ossia il concorso “Torino 33”. Come consuetudine concorrono film di autori emergenti, sconosciuti al grande pubblico. Sebbene sia possibile riconoscere alcune buone prove, è frequente imbattersi in opere interlocutorie ed è allora interessante destinare la giusta attenzione anche alle sezioni del festival meno chiacchierate, dove è possibile riconoscere lavori di sicura qualità che, tuttavia, faticano a trovare una distribuzione.
Ma andiamo con ordine: la locandina. Un giovane e imbronciato Orson Welles accoglie, non senza preoccupazione, la dedica a lui destinata. Più intricato del mistero di Citizen Kane è quello che riguarda l’omaggio promosso dal festival. Non una retrospettiva ma tre film (Mr. Arkadin, Touch of Evil e lo stesso Citizen Kane) a ricordare i cento anni dalla nascita del più innovativo cineasta americano. Non si tratta di copie restaurate per l’occasione ma di proiezioni di dvd, scelta che non può che suscitare il disappunto del pubblico più esigente. La sterminata sezione “Cose che verranno”, dove confluiscono decine di pellicole che hanno ipotizzato scenari futuri e segnato l’immaginario popolare, ha l’ingrato compito di rimediare all’assenza di una vera e propria personale. Welles, in fondo, vestirebbe bene i panni dell’ideale padre fondatore, con quel suo sceneggiato radiofonico (War of the Worlds) presto tramutatosi in isteria collettiva. Tuttavia, per quanto possa essere gradevole riscoprire vecchi classici del grande schermo come Blade Runner, Stalker, Crash, Brazil o Alphaville, si fatica a rintracciare il legame che tiene insieme opere che per stile e contenuti non intrattengono un dialogo. Si avverte l’assenza di una firma replicata in più opere e, perciò anche criticabile, un’idea di cinema, insomma, che prenda consistenza, anzitutto, dalla faticosa costruzione di uno sguardo.
In questa direzione si colloca piuttosto lo spazio dedicato al misconosciuto Augusto Tretti. Cineasta anarchico, meteora del cinema italiano a cavallo fra gli anni ’60 e ’70. I suoi due film, “La legge della tromba” e “Il potere”, sono testimonianza di come la vivacità delle idee possa far fronte all’oggettiva povertà di mezzi. Pochi metri di pellicola che riassumono tutte le potenzialità di un cinema fieramente alternativo. Fotogrammi che a distanza di decenni, al di là dell’irriverenza senza freni e degli sberleffi che indirizzano alle storture della nascente società dei consumi, permettono di immaginare un cinema italiano distante dalla poetica canonizzata dalle principali produzioni dell’epoca.
La sezione “Onde”, una delle certezze del festival torinese, raccoglie esperienze cinematografiche segnate da preoccupazioni metalinguistiche. Un cinema che interroga anzitutto se stesso. Esemplare in questo senso Des Provinces Lointaines di Stefano Canapa e Catherine Libert. Impreziosito dal contributo di Enrico Ghezzi, il lavoro, che si avvale di materiali eterogenei, è una prolungata riflessione sulle possibilità, inesauribili, della settima arte. Omaggio al cinema di Tonino De Bernardi e Alberto Momo, esponenti storici della scena underground locale, diviene occasione per rivendicare il carattere “resistente” delle immagini. L’evoluzione tecnica, il passaggio dalla pellicola al digitale, non ha modificato i meccanismi antichi di una forma espressiva che non cessa di riproporre il proprio sguardo obliquo sul reale.
Ecco allora che il curioso ritorno al 16 mm di Lamerica si presenta come uno dei migliori lavori documentari presentati. Lavoro fotografico raffinato quello del giovane autore Stefano Galli. Viaggio ritrattistico che immerge lo spettatore in un’America rurale, e lo lascia libero di ridiscutere e confrontarsi con suggestioni letterarie e stereotipi culturali. Regia e montaggio, essenzialmente discreti, sono al servizio di una sguardo partecipe che non sottrae né aggiunge nulla alla spontaneità di ciò che osserva.
Ulteriore spazio a nuove direzioni di ricerca è concesso dalla breve selezione di “Torino Film Lab”. L’esordio del greco Zois, Interruption, guarda al teatro promuovendo una felice commistione di linguaggi. Decostruzione della rappresentazione sorretta da una rigorosa padronanza del mezzo. Il rinascimento del cinema greco trova ulteriori motivi d’interesse in quest’opera prima. Ibrido ricco di spunti, dove la regia asciutta conduce sino al termine lo sviluppo dell’interazione fra spettatore e spettacolo. Linguaggio filmico e teatrale s’intrecciano anche in altre opere. In Morituri di Daniele Segre, la scelta di un’inquadratura fissa manifesta l’impostazione teatrale mentre, muovendo in direzione opposta, il lavoro di Davide Ferrario, Sexxx, prova ad arricchire il lavoro omonimo di Matteo Levaggi offrendone una traduzione per il cinema.
L’attenzione da sempre destinata al cinema di genere e al cinema horror si rinnova nella sezione “After Hours” dove è stato possibile apprezzare l’eccellente lavoro di Guy Maddin e Evan Johnson, The Forbidden Room. L’estetica psichedelica, eccessiva e manierista, si fonde alla perfezione con una delirante costruzione narrativa dando origine alla vivida trasposizione di un sogno, anarchico e confuso quanto basta per risultare credibile. Infine, acclarata non senza rammarico l’impasse creativa di Sion Sono e atteso alla riconferma dopo la retrospettiva dell’edizione 2011, il festival ritrova Julien Temple, guest director della presente edizione. Il documentarista inglese, forte della vivacità iconoclasta che contraddistingue il suo cinema, con The Ecstasy of Wilko Johnson, compone il proprio personale omaggio alla tradizione, rielaborandola in un gioco di montaggio privo di timori reverenziali e servendosi della citazione come di uno strumento capace di orientare la visione e, al contempo, conservare molteplici punti di vista. A pensarci bene, la ragion d’essere di un festival del cinema: la possibilità di confrontare diverse rappresentazioni della realtà, criticarle o esserne influenzati e, da ultimo, costruire, con pieno diritto, la propria.