VALENTINA SORTE| Chi si aspettava un allestimento di forte impatto visivo ed emotivo da “Dovevate rimanere a casa, coglioni” di Rodrigo García, presentato allo Spazio Tertulliano dal 09 al 13 dicembre, sarà rimasto sicuramente deluso. Diversamente dalle tanto discusse performance a cui ci ha abituati finora l’artista argentino (di recente al Festival d’Automne con “4”, la sua ultima creazione), Jurij Ferrini decide di spogliare l’opera di Rodrigo García proprio del suo impianto spettacolare e di focalizzare la sua attenzione sulla dimensione trasgressiva e grottesca del testo.
Per fare questo, il regista opta per una scena completamente spoglia, priva di qualsiasi elemento scenografico e per un disegno luci molto semplice, quasi fisso. La forza del testo è quindi consegnata alla performance vocale e attoriale di Rebecca Rossetti, esaltata proprio dalla sottrazione degli altri elementi. L’operazione è interessante ma sicuramente rischiosa, soprattutto se si considera il connubio che unisce la drammaturgia garciana alla sua genesi strettamente scenica. Non è un caso infatti che Bruno Tackels abbia inserito l’autore tra i più rappresentativi “écrivains de plateau” della modernità (letteralmente scrittori di palcoscenico, di scena) insieme a Romeo Castellucci, Pippo Delbono, Ariane Mnouchkine, Anatoli Vassiliev e François Tanguy.
Partendo dall’idea che Rodrigo García è ormai diventato un classico della nostra contemporaneità, Jurij Ferrini prova a far funzionare i suoi testi come “teatro classico, comico e di matrice pop”. Dei cinque monologhi che compongono “Dovevate rimanere a casa, coglioni”, il regista sceglie “Credo che mi abbiate frainteso” e “Coglione tu, coglione io”. I cinque pezzi non raccontano un’unica storia ma sono piuttosto cinque storie diverse, unite da un filo conduttore – un sentimento di rivalsa e di vendetta – che si materializza poco a poco. A farlo emergere è Rebecca Rossetti appunto, “trait d’union” tra i due segmenti. In entrambi i brani, assistiamo a una serie di ragionamenti, vomitati in scena senza soluzione di continuità, quasi sproloqui da cui si distinguono due micro-storie che parlano di animali. Nel primo, la protagonista è una donna adulta, Elvira, che racconta come da bambina aveva cercato di salvare un pony dalla sua schiavitù domenicale, uccidendolo. Nel secondo invece, a dover morire sono un besugo e un criceto, prima sottoposti ai crudeli divertimenti del loro padrone. In entrambi i casi, il cinismo e il tono di denuncia dell’autore si traducono in un ritmo nevrotico e sopra le righe, forse per certi tratti stereotipato (costantemente sul punto di esplodere) ma che è capace nella parte finale di sorprendere, rovesciando l’esplosione di rabbia in un’implosione di riscatto molto più credibile.
Certo, una maggiore organizzazione della scena, avrebbe potuto rendere riuscito il passaggio da un monologo all’altro, modulando e differenziando maggiormente i “paesaggi emotivi” dei due segmenti, senza affidare alle musiche e alla “macchina attoriale” questa funzione. A maggior ragione se si considera che lo spettacolo insiste in modo particolare sull’indirizzo frontale e declamatorio della parola, come se il personaggio fosse ogni volta alla ricerca di un interlocutore in carne ed ossa fra il pubblico, il “coglione” che avrebbe dovuto rimanere a casa, come evocato nel titolo. A una frontalità così marcata, avrebbero dovuto corrispondere delle soluzioni sceniche più incisive, anche per dare qualche appiglio in più all’interpretazione della Rosselli, che nonostante la prova convincente, alla lunga ha sofferto di questo espace vide, troppo vide.
Insomma, l’esperimento di Jurij Ferrini ha il pregio di offrire un approccio diverso alle opere di Rodrigo García, una sorta di “Rodrigo García senza garcismo”. L’intuizione è buona ma per il momento il risultato è ancora debole.