RENZO FRANCABANDERA e VINCENZO SARDELLI |
RF: Il confronto con l’archetipo culturale penso sia una delle sfide che da sempre animano e sostanziano il teatro. Per chi poi è nato ed ha fatto riferimento storicamente all’area culturale che ha avuto come capitale Napoli, il Sud, il confronto con autori come Eduardo o Pirandello sono dei “must“. Sono cose endemiche nel tessuto culturale popolare, in cui chiunque fa o voglia fare teatro si trova immerso.
VS: Pullula la Puglia di piccole compagnie amatoriali, che attingono gli ingredienti dal grande teatro comico napoletano e li saltano in padella con peperoncino, alici e cime di rapa. Classici come Natale in casa Cupiello o Questi fantasmi! sono rivisitati in vernacolo barese, dauno, salentino. La pizza cede all’orecchietta, la mozzarella d’Aversa al fiordilatte delle Murge, ma da Vieste a Leuca, teatranti di primo pelo si misurano da sempre con una drammaturgia solida, in un tributo verso Napoli capitale che resta immortale nell’immaginario del Sud. Capolavori tentacolari, rivitalizzati nell’acqua salata tra Ionio e Adriatico. C’è di buono lo smalto restituito ai molteplici dialetti locali. Espressioni idiomatiche riesumate dall’oblio, in barba all’imperante italiano televisivo impastato d’inglese.
RF: Ma quello di cui parliamo qui è un ripensamento tutt’altro che oleografico e chiuso nello stereotipo della filodrammatica. L’allestimento di Miseria e Nobiltà pensato da Michele Sinisi per una produzione Elsinor e debuttato in prima nazionale al Teatro Sala Fontana di Milano dopo un mesetto circa di prove aperte è un esito che mostra come come ci si possa confrontare con il classico ma in una logica di ripensamento e anche di stimolo con il nostro tempo.
VS: Michele Sinisi, che di primo pelo non è ed il teatrante lo fa di mestiere, senza velleità intellettualoidi rispolvera il capolavoro di Eduardo Scarpetta come si fa con un vecchio paltò. Ne nasce un lavoro essenziale, risate senza fronzoli né elucubrazioni. Il napoletano musicale dell’originale, datato 1887, dialoga con la nazionalpopolare versione cinematografica di Mattioli (1954) resa celebre dall’interpretazione di Totò, Sofia Loren ed Enzo Turco agli albori della Tv. Demiurgo in scena alla maniera di Kantor, tecnico delle luci e spettatore stordito, coscienza critica e personaggio minore, Sinisi rende la miseria del titolo attraverso una scenografia disadorna da lavori in corso. La nobiltà della seconda parte della pièce invece è avviata da un telo bianco che si dipana in scena come tavola da imbandire. Il discrimine è una zuppiera di spaghetti giganteschi calata dall’alto come manna da un cuoco rosso-pummarola, e i personaggi a sguazzarci dentro.
RF: Colpiscono dell’allestimento non solo le scelte registiche. Sinisi comunque riesce a fondere tutto in un pot-pourri che allarga l’indagine al confronto con il classico teatrale-televisivo, ampliandolo poi fino a diventare una sorta di decollage in stile Rotella, dove attraverso quell’iconografia da archivio dell’Istituto Luce, ci si confronta con il prototipo del genere farsesco, che in Italia ha avuto interpreti in ogni tempo e in ogni medium, diventando una delle corde del sentire nazionale, fra le poche davvero unificanti. Forse a tratti la cosa prende un po’ la mano, come quando la drammaturgia allarga l’orizzonte per mettere dentro “le lettere” più celebri del repertorio comico teatral-televisivo, ma nel complesso la riscrittura è intelligente ed ha ritmo.
VS: La versione di Sinisi è una sarabanda apulo-barese da cui emerge una miriade di ascendenze glottologiche (latine, bizantine, arabe, francesi, spagnole) innestate sul sostrato greco-illirico di una città come Andria. Una lingua dai suoni comici: fa ridere solo a sentirla. Qui abbiamo altri idiomi: milanese, emiliano, romanesco, marchigiano, perfino nella stessa famiglia. Un mix sardonico un po’ gratuito, come le interpolazioni di epistole cult del cinema italiano: il duetto Troisi-Benigni di Non ci resta che piangere; la sgrammaticata vis polemica dei fratelli Capone in Totò, Peppino e la malafemmena. Personaggi ognuno con un ruolo definito. Macchiette senza sfaccettature, però dalla spiccata vocazione a divertire. Merito anche degli attori: Gianni D’Addario, Ciro Masella, Diletta Acquaviva, Stefania Medri, Giuditta Mingucci, Donato Paternoster, Stefano Braschi, Gianluca Delle Fontane, Francesca Gabucci, Giulia Eugeni, lo stesso Sinisi.
RF: In questo gruppo si apprezza la coralità, l’orizzontalità che Sinisi riesce a dare all’impianto narrativo che fa si che il contributo di ogni attore diventi essenziale al ritmo e allo svolgimento complessivo. Notevole si segnala l’interpretazione di Masella, vero e proprio metronomo dei ritmi scenici, ma le prove di qualità sono in realtà tutte. E benissimo funzionano anche le idee sceniche di Federico Biancalani, che con poco riesce a rileggere gli elementi della tradizione fino al finale disvelamento, al velo che si alza sulla finzione del teatro e dell’arte in generale, quello che serve a far ripensare al reale, al vero, senza nominarlo mai.
VS: Un modo per esorcizzare la miseria economica degli ultimi anni. Un’occasione, soprattutto, per celebrare la nobiltà di una tradizione culturale ancora viva e vegeta. Questo Miseria e Nobiltà riscritto da Sinisi con Francesco Asselta, esce dalla ritualità, dialoga col presente, diventa l’aperitivo giusto per i pantagruelici pasti natalizi.
RF: Ne abbiamo parlato con Michele Sinisi, nel video reportage che proponiamo oggi.
“Io voglio parlare a più gente possibile, più che unirla, ma non per gli incassi (che nemmeno condivido), bensì perché essere capito è il senso del mio lavoro. Quando scrivo penso a mia madre, mi chiedo se lei mi capirebbe, e cerco un linguaggio universale che non sia pacchiano. Rivendico l’appartenenza al concetto gramsciano di nazional popolare. E, soprattutto, ho un forte senso di comunità, sono nato e cresciuto in un quartiere popolare, i miei genitori erano operai”. Michele Sinisi o Gennaro Nunziante?