LAURA NOVELLI | Un precipizio a picco nel male e nella violenza. Un tremante affresco del sopruso fisico, psicologico, morale, ideologico che gli esseri umani sono capaci di perpetrare ai danni dei loro simili. Un universo di relazioni familiari e di equilibri politici inghiottito in un tunnel di terrore e minaccia. Insomma, un’apocalittica visione di quella brutale aggressività che ci condanna da millenni a trasformarci in lupi assetati di sangue e vendetta. Lear di Edward Bond non ci offre alcuna possibilità di scampo. Alcuna risposta. Alcun respiro di sollievo. Alcuna altra strada. E lo spettacolo che la regista Lisa Ferlazzo Natoli ne ha tratto per il Teatro di Roma (che lo produce in collaborazione con lacasadargilla e lo ha proposto al Teatro India) restituisce con rara intelligenza di analisi la disarmante tesi del testo, scritto nel ’71 dal più grande drammaturgo inglese vivente e qui tradotto da Tommaso Spinelli, affidando a un cast di appena otto attori – Danilo Nigrelli, Fortunato Leccese, Anna Mallamaci, Emiliano Masala, Alice Palazzi, Pilar Perèz Aspa, Diego Sepe, Francesco Villano – trentacinque dei numerosi (oltre sessanta) ruoli previsti e operando tagli concordati, studiati e discussi con l’autore stesso lungo un percorso di conoscenza reciproca durato più di un anno.
Il privilegio e il valore incommensurabile di questo incontro personale e diretto con Bond, la Ferlazzo Natoli me lo aveva già raccontato tempo fa in un’intervista rilasciatami proprio per PAC in occasione dell’allestimento, sempre all’India, di quell’oratorio solenne che era Edward Bond/Parole nude. Anticamera per otto attori e trentacinque voci, una sorta di studio vocale e sonoro dentro la parola e la lingua “pietrosa, aspra” di Bond, realizzato quale emblematica tappa del più ampio progetto Linee di confine.
Dal plumbeo involucro velato di quel lavoro (che va detto, per amor di precisione, era interpretato da altri attori, tutti giovanissimi), Lear prende ora corpo nella scena metallica di Luca Brinchi, Fabiana Di Marco e Daniele Spanò: un paesaggio post-atomico immaginato come un’impalcatura praticabile a più livelli che evoca l’idea, qui centrale, di un cantiere deputato all’edificazione di un muro. Muro voluto da un Lear fobico e già folle (l’ottimo Nigrelli) che sembra un gerarca contemporaneo dal fare nervoso e istintivo, un dittatore novecentesco ossessionato dal bisogno di un luogo sicuro dentro cui trincerarsi e da cui respingere gli attacchi nemici. E siccome tutti sono nemici di tutti, quel muro, simbolo ieri come oggi di un’umanità divisa e barbarica (e la fin troppo facile assonanza con il muro di Berlino, tra l’altro non ascrivibile alle intenzioni dell’autore, cede il passo ad altri riferimenti più attuali e cocenti), è il vero protagonista del dramma. Che è certamente un dramma politico ma non in senso precipuamente brechtiano proprio perché, pur nella lucida consapevolezza che il teatro debba contribuire a cambiare la realtà, l’autore inglese vuole deliberatamente porre il pubblico in una situazione di pericolo, di paura, senza offrirgli il barlume di una possibile soluzione.
Come fin troppo chiaramente suggerisce il titolo, ad ispirare l’opera è innanzitutto il Re Lear di Shakespeare, tragedia da cui però essa si discosta molto intercettando una feconda rete di riferimenti altri che vanno da Amleto a Beckett, dalla tragedia classica al teatro epico. Del Lear che tutti conosciamo – a prescindere dalle diverse interpretazioni sceniche che di questa tragedia sono state date nei secoli – resta la malvagità delle figlie (qui ridotte a due, Fontanelle/Palazzi e Bodice/Perèz Aspa), mentre Cordelia, che in Shakespeare è il vero ago della bilancia e potrebbe persino rappresentare (come volle intendere Strehler) un alter ego tragico del fool, è una popolana chiamata a guidare una rivolta contro il potere costituito (la interpreta la Mallamaci); resta la cecità dei potenti e l’idea che essi riescano a vedere la realtà solo quando sono privi fisicamente di occhi (con uno slittamento che da Gloucester sposta la cecità su Lear stesso, evocando richiami ancora più significativi a Edipo e a quel Finale di partita notoriamente imparentato con la sublime opera shakespeariana); resta la catena di intrighi, omicidi, morti irreparabili, la disfatta dei matrimoni delle figlie, la follia allucinatoria del re, la sete di potere tramutata in macchina di guerra, l’idea che una stilla di umanità possa esistere e sopravvivere sono nei più deboli e nei più indifesi. Ma in Bond c’è dell’altro: c’è un gusto quasi senechiano per il cruento, per il morboso, per la manipolazione violenta del corpo (basti vedere la scena della vivisezione del cadavere di Fontanelle), per quella “scientificità” del sopruso che tanto influenzerà, ad esempio, la scrittura di Sarah Kane e di altri esponenti della new angry generation britannica.
La regia della Ferlazzo Natoli (anche curatrice, insieme con Maddalena Parise e Spinelli, di una nuova edizione dell’opera pubblicata da minimumfax) condensa il lungo lavoro in poco più di due ore e mantiene la scansione tripartita del testo in un corpo unico che prevede gli attori (molti dei quali recitano più ruoli) sempre in scena, incursioni sonore/musicali significative ma non prepotenti, scritte luminose atte a dare indicazioni sui vari luoghi e/o personaggi in gioco che senza dubbio agevolano la fruizione di una storia assai complessa.
“I tre atti – spiega la stessa regista – parlano di tre diverse stagioni politiche: il governo autoritario di Lear, la debole e corrotta oligarchia delle sue figlie e l’istituzione di un governo rivoluzionario che, fatalmente, riprenderà la costruzione del muro”.
L’incipit dello spettacolo ricorda qualcosa di certi allestimenti ronconiani (penso proprio al suo magnifico Lear) ma si avverte da subito una carica grottesca, espressionista, che si fa via via più marcata non appena le figure minori e quelle delle due figlie si delineano meglio, per poi scemare non appena la trama diventa più nettamente tragica. A dominare le prime scene è ovviamente lui, un Danilo Nigrelli energico, sicuro di sé, che ancora una volta sa calarsi con piglio personale in un personaggio non facile: ecco il gerarca che supervisiona il suo fangoso cantiere, che sollecita maggiore lena nella costruzione del muro difensivo, che fa giustiziare il giovane figlio del becchino (poi tramutato in fantasma) solo perché sospettato di tradimento. Lo accompagnano Bodice e Fontanelle: dark lady in elegante abito nero già pronte a sfoderare i loro artigli contro il padre e a fare progetti golpisti per il futuro.
L’ansia di dominazione sovrasta tutto e tutti e il desiderio di guerra, di morte e di potere è così forte da non poter lasciare spazio ad alcuna altra dimensione linguistica. Ma, per paradosso, a spappolarsi dentro questa ferocia linguistica è la storia stessa di Lear: dovrà fuggire, soffrire come un cane, rimanere solo, essere accecato ed infine ucciso da un soldato (insieme con le figlie stesse) per compiere la sua missione drammaturgica. Il muro continuerà ad essere edificato anche da coloro che prima avrebbero voluto demolirlo (sembra di sentir risuonare qualche eco di Ubu Roi). Un’altra guerra arriverà a recriminare il suo bisogno di sangue e dominazione. Non ci sarà più alcuna bellezza se non “dentro le viscere” dei cadaveri: dentro quella consistenza fisiologica e biologica dell’essere umano in cui un Lear/padre ormai disfatto e disperato rovisterà con sofferente stupore.