VINCENZO SARDELLI | Otello, uno dei testi più complessi di William Shakespeare, sfruttati, riletti, aggiornati in una miriade d’interpretazioni. A volte con uno sguardo attualissimo sulla cronaca nera, dove il dramma della passione si chiama “femminicidio”.
Il Moro e Iago, facce della stessa medaglia, risvolti della medesima stupidità: invidia e gelosia, odio e violenza. E poi Desdemona: candida e ingenua, solare, eterea, a tratti evanescente. Fino al destino di vittima sacrificale, cui si consegna forse con eccessiva arrendevolezza.
Qui ci soffermiamo su due versioni del capolavoro del Bardo, andate in scena entrambe a Milano: quella “corale” che Corrado d’Elia ha riproposto di recente al Teatro Litta; e il monologo con cui Davide Lorenzo Palla ha chiuso l’anno solare al Pim Off, e che potremo rivedere a marzo alla Sala Fontana.
Nove attori al Litta. Essenziale la scenografia costruita da Fabrizio Palla: due pozze d’acqua che evocano i luoghi della storia, ma anche espedienti per brindare, ubriacarsi, tentare (invano) di lavare la cattiva coscienza. Atmosfere dark (luci di Marcello Santeramo) come gli abiti, giacche nere indossate direttamente sul torso nudo, corazze per mascherare la vulnerabilità umana. Un trono, il cui design ricorda una lama o una penna stilografica: i coltelli uccidono, le parole pure.
Il mattatore è sempre d’Elia, che firma adattamento e regia, ed è perfettamente calato nel ruolo di Iago. Una figura piuttosto sfaccettata, inclinata al male, di cui emergono solo di soppiatto le motivazioni alla base della trama subdola ordita da Shakespeare: sociale e di rango all’inizio, antropologica e psicologica dopo, legata alla propria gelosia verso la moglie e al desiderio di possedere Desdemona per vendicarsi di Otello. Questo Iago, creatura né infernale né psicotica, si compiace della propria malvagità nel tessere trame. Non ha la grandezza tragica dell’originale shakespeariano. È un mediocre senza scrupoli e dai tratti farseschi. Ma, sostanzialmente, questi tratti lo avvicinano alle nostre meschinità quotidiane, interrogano la nostra incapacità d’amare, prefigurano un eros libero dalla ragione e degradato a lussuria animalesca e misogina. Di fronte a Iago, sta un Otello (Alessandro Castellucci) privo di connotazioni etniche. È nero solo grazie al giaccone di pelle che indossa come gli altri personaggi. Come il livore e la rabbia che ne fanno un innamorato incerto dentro un universo cupo, carnefice di Desdemona, vittima delle trame sordide di Iago.
In bilico tra amore e odio, Otello sceglie l’opzione sbagliata solo perché accecato dalla passione. Finisce quasi per fare compassione. Resta tuttavia un esecrabile uxoricida: Dio non ha pietà per gli stolti.
Rimane la sensazione di uno iato marcato tra il ruolo del protagonista fortemente caratterizzato da d’Elia, e i pur bravi comprimari, che sfilano accanto a Otello: oltre al già citato Alessandro Castellucci, Chiara Salvucci, Gianni Quillico, Giulia Bacchetta, Marco Brambilla, Giovanni Carretti, Anna Mazza e Marco Rodio.
In Otello unplugged, Davide Lorenzo Palla è cantastorie in una fiera paesana. In assenza di rozze figurazioni di supporto, si serve di due casse da frutta, di un cappello triangolare e di una giacca da ammiraglio per tratteggiare luoghi, eventi e personaggi. Evoca con la fantasia bare nere e bianche, velluti rossi, calli, canali, isole, navi. Ci conduce nel miserabile animo umano.
Palla versione menestrello rappresenta temi solenni in chiave grottesco-satirica. Spazia attraverso registri contrapposti: dal popolano al sublime, dall’ironico al sarcastico, con inattesi acuti lirici. Il ritmo è incalzante, il montaggio ardito, e a volte ci vuole impegno a stargli dietro. Il linguaggio vivido svaria dal veneziano al fiorentino.
I personaggi sono schizzati con tratti veloci di pennello: figure stentoree, piagnucolanti, placide, viscide, ingenue; oppure complesse e mutevoli come Otello – qui protagonista a chiare lettere – fiero e spavaldo, vulnerabile e titubante, geloso, indemoniato fino all’impeto omicida.
Sberleffi e lazzi non indeboliscono la letteratura. Un grande classico è raccontato con un artigianato teatrale eclettico, e il contributo di un musicista che suona pianoforte, fisarmonica, tromba e sax. Tiziano Cannas utilizza una loop-station per creare arrembanti atmosfere sonore, divertenti botta e risposta con l’attore, attimi di puro straniamento.
Il lavoro di Palla, che a più riprese coinvolge direttamente il pubblico fino a sbalzarlo sul palcoscenico, comprende vari momenti metateatrali. È tributo al mestiere dell’attore. È anche il riconoscimento della fatica di tecnici, macchinisti e attrezzisti sempre nascosti dietro le quinte, eppure indispensabili per la buona riuscita di uno spettacolo.