RENZO FRANCABANDERA | Una chanteuse nel senso più equivoco del termine. Anni 30. Una donna sceglie il divorzio e la vita libera, lasciando all’ex marito una giovane figlia. Diventerà una equivoca star dello spettacolo ma tornerà a sconvolgere la vita dell’uomo, della ragazza e degli abitanti del paese con la suaovvisa morte e con un’eredità materiale e morale assai pesante.
“L’abito nuovo” è un testo scritto da Eduardo De Filippo e Luigi Pirandello che debuttò a Milano nel 1937 mai più rappresentato fino a oggi. È l’incontro tra il regista pugliese Michelangelo Campanale e l’attore napoletano Marco Manchisi, da anni in Puglia all’interno del gruppo di lavoro del Teatro Kismet, ad aver favorito l’occasione per un ritorno di questa drammaturgia in scena.
Come testimonia Eduardo stesso in un interessante video disponibile in rete e utilizzato anche nell’ allestimento come legame con la genesi dell’opera, intorno alla metà degli anni Trenta Eduardo e Pirandello coronarono il loro desiderio di collaborazione artistica, desiderio nato in Eduardo dopo l’incontro con Pirandello che aveva assistito ad un suo spettacolo.
Il progetto si coagulò sulla riscrittura anche attraverso inserti dialettali de L’abito nuovo, l’omonima novella di Pirandello che Eduardo individuò come adatta ad una trasposizione teatrale.
Ne nacque nel 35 una partitura in due atti e tre quadri concertata da Eduardo De Filippo, che andò in scena nel 1937, al teatro Manzoni di Milano. Le tematiche care ad entrambi gli autori, la morale di famiglia, le figure parentali assenti e presenti, i lasciti morali e i giochi delle parti, sono qui intrecciati in modo che la genesi testuale sia effettivamente ibrida. E anche l’allestimento di Michelangelo Campanale prova in qualche modo a mantenere questa leggibilità.
Dal punto di vista puramente tecnico l’allestimento rispetta filologicamente la scansione del testo, proponendo tre ambientazioni, con la prima più onirica e degna dell’ultimo Pirandello, ma quasi kafkiana.
In un mondo sotterraneo, uomini piccoli come topi non sono in grado di sostenere, nel bene e nel male la grandezza di un personaggio, la Celie Bouton che lo scenografo immagina simile ad una Laura Antonelli ante litteram, che comunque compie la sua scelta di libertà senza veli e incertezze. Non è lei infatti a uscire sconfitta da questa vicenda, ma il formicaio di uomini mediocri incapaci di separare la bramosia dalle buone intenzioni, e tutti armati di una doppia morale, quella che alla fine si piega alla ricchezza. Ecco dunque che il Michele Crispucci protagonista interpretato da Marco Manchisi, diventa emblematica ed antieroica figura di una società la cui corruzione non è fuori ma dentro di sé e a cui, amara morale di questa vicenda, è impossibile opporre resistenza.
E’ tutto il piccolo e miserabile insieme di figurine che popolano una scena che o le schiaccia o le sovrasta, annullandole, ad essere sempre inadeguato, incapace di quello scarto umano di fronte al sistema di scelte che a ciascuno spetta.
Questa coralità di copione trova esito in una resa scenica cui contribuiscono 11 interpreti (Marco Manchisi, Nunzia Antonino, Salvatore Marci, Vittorio Continelli, Adriana Gallo, Paolo Gubello, Dante Manchisi, Olga Mascolo, Tea Primiterra, Antonella Ruggiero, Luigi Tagliente) sotto la direzione di Campanale che firma anche le luci e le scene, facendosi sostenere per le musiche niente meno che da Giuseppe Verdi, di cui sono frequenti gli inserti tratti da La Traviata, opera menzionata nel testo. I costumi di Maria Pascale riportano effettivamente ad una prima metà del Novecento i cui connotati sono molto chiari: una società vittima della morale piccolo borghese che in Italia di fatto costituirà il blocco sociale che aveva portato al potere il fascismo, ma il cui governo è continuato ininterrotto anche dopo la seconda guerra mondiale. Le tre scene portano questa umanità prima in un mondo piccolo piccolo, poi nella sfarzosa reggia veneziana, per finire in una sorta di non luogo, un paesaggio domestico privo di personalità, totalmente contrapposto al così marcato ambiente da boudoir del secondo movimento scenico.
La piccola borghesia che la regia immagina, fatta quasi di marionette, personaggi a tratti un po’ burattini, ha equilibrio recitativo più forte soprattutto quando la maschera non viene calcata, quando la recitazione resiste alla tentazione di scadere nell’archetipico dei caratteri della tradizione, cercando una loro modernità di gesti e dinamiche. D’altronde il testo stesso ha delle caratteristiche di più spiccata prevedibilità nella parte finale, tanto che potrebbe quasi essere uno spettacolo muto, senza perdere la sua assoluta leggibilità. E questa cosa, probabilmente assieme ai dissidi fra i fratelli de Filippo che caratterizzarono il debutto di questa pièce sono forse le ragioni per cui il testo non era stato più ripreso. Ma questo allestimento riesce a restituirgli una forza ed una attualità che vanno sottolineate. Campanale riesce in un’operazione equilibrata, d’insieme, in cui bene si comporta tutta la compagine degli attori, che da anni lavorano per la compagnia La Luna nel Letto di Ruvo di Puglia, specie quando al volume viene preferita l’intensità, considerazione che sempre dovrebbe essere il faro per questo genere di allestimenti che si confronta con un passato drammaturgico il cui recupero diventa capacità di valorizzare un patrimonio culturale enorme del nostro teatro.