VINCENZO SARDELLI | La versione iperrealista di una tra le più rappresentative opere del teatro dell’assurdo. Dopo aver inaugurato il 2016 al Binario 7 di Monza, La lezione di Ionesco, diretta da Valerio Binasco, approda al Verdi di Milano, nell’ambito di un gemellaggio fra la storica sala del quartiere Isola e il Teatro Menotti.
In questa messa in scena prodotta da Fondazione Luzzati-Teatro della Tosse, Binasco rilegge il testo ponendo l’accento sui toni più autentici e naturali della vicenda. Ridefinisce anche i caratteri dei personaggi, conferendo – attraverso la regia – un’icasticità sconosciuta all’originale.
Il soggetto è la lezione privata di un professore a una nuova alunna.
Luci deboli sul palco e in platea, disegnate da Matteo Selis. Lampade a muro accese a metà. La carta da parati ingiallita, cadente, evidenzia l’alone di un quadro rimosso. In questo interno domestico trasandato, realizzato dallo scenografo Emanuele Conte, campeggia un antico grammofono a manovella. Lo avvia un vecchio professore (Enrico Campanati) gobbo e tremolante, barba bianca e abiti lisi. Il professore accompagna il sottofondo del grammofono suonando goffamente un violino. Sedutogli accanto, un altrettanto attempato e imbolsito maggiordomo (Franco Ravera) gli gira le pagine dello spartito, mentre rammenda un paio di pantaloni.
Suonano alla porta. Si presenta un’allieva (Elena Gigliotti) cappellino e occhialoni, allegro abito a pois, l’aria scanzonata e un po’ ebete. Ripete come tormentone «va bene professore» con la “s” strascinata siciliana. Richiede non meglio precisate lezioni di cultura generale.
In apparenza comprensivo e ammiccante, di fatto aggressivo e nevrotico anche quando rivolge parole gentili, il professore mette in scena una lezione che parte da banali domande di matematica e approda a improbabili dissertazioni filologico-linguistiche. È un climax che da ilare si fa grottesco, per approdare allo psicodramma e alla tragedia. L’incomunicabilità degenera in tensione, frustrazione e follia. Fino alla perdita totale del controllo da parte del professore. Che con furia omicida si accanisce sulla ragazza.
Ionesco non offre una soluzione agli interrogativi che pone. Testimonia paure baroccamente e infantilmente atteggiate. La sua comicità, i suoi toni esasperati, hanno il carattere dello sberleffo. I contenuti palesemente metafisici rivelano il vuoto di realtà che si nasconde dietro la società umana. Il rovesciamento di ruoli tra i protagonisti, il tono caricaturale che risuona fino all’epilogo della pièce, esorcizza la disperazione grazie a una costante tensione sperimentale nella struttura e nei modi dell’azione teatrale. Lo spettatore si riconosce in questa comicità raggelata. Ride perché nei buffi personaggi in scena ritrova le mille banalità della vita ordinaria, le convenzioni scontate del rapporto con gli altri.
La versione viscerale di Binasco scolpisce invece in altorilievo i protagonisti, esaltando le magnifiche qualità interpretative degli attori (in primis lo spiritato Campanati). D’altra parte, senza l’ironia di fondo voluta dall’autore, tale virata drammatica si risolve in gravame sinistro. Il crescendo di tensione, fino all’epilogo violento, si traduce in smarrimento senza catarsi.
Azzerata la componente surrealistica del teatro dell’assurdo, resta un profondo senso d’angoscia. Affiorano nudi e crudi, un rapporto docente/allievo vessatorio e il femminicidio come delitto esecrabile.
In questa scelta di asservire la portata universale del messaggio di Ionesco a un’ottica parziale (pur attualissima) di denuncia delle derive maschiliste e misogine della nostra società, rientra anche la sostituzione della più rassicurante governante femmina con un maggiordomo maschio, spalla e alter ego del professore, complice inquietante e altrettanto abietto. Tutte scelte autoreferenziali, alla lunga opprimenti, che finiscono per dissolvere il brio e la genialità dell’originale.