RENZO FRANCABANDERA | È un tipo di teatro accessibile ma con un peso specifico poetico assai particolare e calibrato quello che da anni ormai propone al pubblico milanese Campo Teatrale.Con la direzione artistica di Donato Nubile e il trasferimento nella bella sede in zona Lambrate, il teatro sta conoscendo una stagione davvero positiva, pur fra le difficoltà dell’economia culturale.
E d’altronde Nubile stesso e promotore di altre iniziative e start-up legate all’economia culturale e alla possibilità di una sua modernizzazione al di là del sistema che fino a questo momento la ha governata.
E così Campo Teatrale è diventato davvero un polo particolarissimo non solo di offerta culturale ma anche di piccola produzione, capace di farsi testa di ponte per la circuitazione di progetti assai peculiari.
Ospiterà, ad esempio, a febbraio una rassegna che porterà a Milano i lavori vincitori di Teatri del Sacro, una delle vetrine divenute significative della proposta scenica a tema in Italia. Molti, però, gli artisti succedutisi già in questa prima parte di stagione: solo nell’ultimo mese siamo stati spettatori di due lavori di particolare interesse.
Parliamo di Open, di e con Mattia Fabris, liberamente tratto dal best seller omonimo di Andre Agassi in cui il tennista americano racconta la sua vita e il rapporto di odio amore con lo sport che lo ha reso celebre. Parliamo anche di capatosta, scritto e interpretato da Gaetano Colella, in scena con Andrea Simonetti per la regia di Enrico Messina.
Open è uno spettacolo che supera la dimensione del reading teatrale per strutturarsi come una vera e propria narrazione che di fatto condensa il primo e l’ultimo capitolo del libro di Agassi ovvero L’infanzia nelle grinfie paterne con le scelte del giovane condizionate dalla figura dominante del padre e l’età matura, l’ultimo incontro, la battaglia finale di una carriera incredibile. Intreccio sonoro unito alla recitazione rendono il tessuto drammaturgico vivo. Attraverso pochi mezzi lo spettatore, come nel libro, ripercorre l’avventura del protagonista e in molti momenti il pathos è vivo ed il ritmo serrato. E possibile si tratti di un inizio di un polittico che potrà avere i prossimi capitoli all’interno della vivissima biografia di Agassi, magari favorendo il percorso di teatro fuori dai teatri caro all’interprete.
Le palline pesanti come di cemento, che arrivano come cannonate. Le urla del padre, il campo cone prigionia: la narrazione ha il tipico vigore dei racconti di Fabris, che da anni si è ricavato una specifica abilità nella narrazione teatrale, fatta di intrecci di suono (assai interessante qui la musica eseguita dal vivo dalla chitarra di Massimo Setti), parola ed emozione.
Dal punto di vista tecnico lo spettacolo è quasi diviso in due parti, la prima che racconta l’infanzia, in cui la figura paterna irrompe come un incubo; la seconda che salta di fatto tutta la vita sportiva del protagonista, dandola quasi per scontata e assunta, sottacendo l’esperienza che porta a quel finale (qui forse c’è una pecca drammaturgica, comprensibile per la ricchezza del libro ma non per la necessaria indipendenza da questo del testo teatrale, che nella seconda parte soffre un po’ la mancanza del conflitto), e si conclude passando direttamente all’ultimo match della carriera. L’apice dello spettacolo arriva un po’ presto, così che quasi il finale, nella versione proposta nel reading strutturato proposto a metà dicembre a Campo Teatrale, si scarica un po’ prima del necessario di tensione, ma sicuramente il piccolo tratto di strada che manca fra questo reading strutturato ed una versione definitiva può consentire di sistemare quel poco che occorre per arrivare ad un esito robusto in ogni sua parte.
Capatosta è una drammaturgia originale distillata da Colella attraverso una serie di interviste ad operai attivi nello stabilimento dell’Ilva, gigantesco mostro industriale unito e al contempo separato dalla città di Taranto, che condiziona in maniera pesante l’economia del territorio ed i suoi abitanti. In quasi tutte le famiglie c’è un parente dipendente Ilva, e in quasi tutte le famiglie c’è qualche ammalato di patologie gravi direttamente o indirettamente collegabili al lavoro in quest’azienda dall’altissimo impatto ambientale, le cui vicissitudini sono quotidianamente in evidenza nelle pagine di cronaca economica e giudiziaria per via del sequestro e delle vicende proprietarie.
Lo spettacolo ho tuttavia un pregio particolarissimo che è prima di tutto nella costruzione testuali: si confrontano due personaggi uno giovane, figlio di un ex operaio (Andrea Simonetti), ed uno più anziano (lo stesso Colella), che lavora nello stabilimento da vent’anni. Il primo ha i tratti rivoluzionari e crede in una lotta di classe di ritorno, che dovrebbe ricompattare le classi sociali che stanno subendo la pressione della crisi economica. Il maggiore invece dei due, è un personaggio drammaturgicamente molto riuscito e che delinea una psicologia complessa delle classi povere, una sorta di egoismo degli ultimi, che è il tratto più raffinato e pregevole di questo spettacolo. Il conflitto psicologico fra i due infatti risulta quanto mai vivo e intrigante, sviluppando un inatteso duello fra ultimi. Unico particolare un po’ sforzato, a nostro avviso, è il finale in cui questo conflitto trova elementi di premeditazione ed un esito finanche eccessivo.
Per il resto, la regia esperta di Enrico Messina, unita alla bella ed evocativa scena realizzata da Massimo Staich e al bel disegno luci di Fausto Bonvini, conduce positivamente in porto un esito scenico interessante e vivo.