ROBERTA LEOTTI | Come ci spiega la drammaturga della compagnia Baba Fish, oltre che interprete della perfomance, Anna Nilsson, la pièce è stata concepita come un esperimento, nato dall’idea di rappresentare “What Makes a Life”, quelle piccole cose ed effimeri momenti di estasi che danno, e sono, il senso della vita, ma che sono da cogliere per poterla vivere pienamente.
Per sua stessa ammissione, questo progetto di recente al Barbican di Londra in occasione del London International Mime Festival, presenta forti richiami biografici. La parte della Nilsson infatti, è pensata e costruita sulla malattia che ha colpito la madre (cancro), che drammaturgicamente diviene motivo della morte del protagonista: il vecchio Joseph, interpretato magistralmente da Jef Stevens.
In scena l’ultima ora di vita di Joseph, solo con le sue memorie che prendono forma grazie al suo giovane alter ego, il talentuoso giocoliere Thomas Hoeltzel, ed all’attrice e contorsionista Laura Laboureur nelle vesti della moglie scomparsa.
Inoltre le vive coreografie sceniche di Hun-Mok Jung utilizzano parte degli allestimenti quasi fosse un ulteriore componente del cast. Ci riferiamo in particolare alle piste di domino, mille tasselli allineati con precisione lungo il pavimento o i complessi congegni meccanici, ideati da Jan Nilsson e realizzati da Raimon Comas Franch con l’Atelier Devenirs.
Per effetto del movimento a catena, questa apparentemente inutile “accozzaglia” di oggetti riesce a trasformarsi in un elemento vivo ed affascinante, reminiscente di un preciso quanto inquietante conto alla rovescia del tempo che separa il protagonista dalla morte.
I ricordi che di tanto in tanto riaffiorano alla memoria, sono passaggi comici che sdrammatizzano un soggetto così difficile e complesso.
Così il rapporto di coppia simboleggiato inizialmente dall’armonia di un passo a due, si deteriora fino allo scontro in una concitata lotta greco-romana, con tanto di campana a scandire la fine di ogni round, come se la scena fosse un ring di pugilato o ancora in un’altra con la Laboureur vestita da sposa che canta sulle note dell’Habanera della Carmen.
Le scelte del suono (Raimon Comas Franch) spaziano dalle arie classiche del requiem a minacciosi techno beat a presagire la fine imminente.
Anche la luce gioca un ruolo altrettanto importante: nei momenti più tormentati per Joseph, Philippe Baste (responsabile luci) concentra i punti luce solo sul protagonista e tutto il resto nell’ombra. Stessa cosa vale per il sistema di suoni: esemplare il caso del battito cardiaco, suono a cui spesso associamo persone in stato di incoscienza, in bilico tra la vita e la morte, che viene qui snaturato della propria tragicità, attraverso un gioco sonoro interessante; il ritmo diventa sempre più veloce, viene poi mixato con basi tecno-dance finendo per scatenare il cast in un party dove l’anziano in fin di vita, diventa un arzillo acrobata che se ne sta agevolmente in equilibrio a testa in giù su una sedia.
Il continuo alternarsi di passaggi tragici e comici per tutta la durata della performance è un abile espediente per condurre il pubblico alla riflessione più filosofica ed esistenziale che lo spettacolo fra dolore e sorrisi portan con se’ e che potremmo riassumere con il “Carpe Diem”.