MATTEO BRIGHENTI | Con i ricordi usati non si può essere sentimentali. La nostra vita è il frutto della scelta, frutto dolce e amaro, perché con il passare del tempo ciò che sembrava importante cambia, le vittorie diventano sconfitte e gli errori commessi ingiustizie subite. I temi della colpa e della complicità, della dignità personale e della coscienza collettiva sono al centro de Il prezzo di Arthur Miller, inscritti in una più ampia critica a un’economia crudele che cannibalizza i già di per sé difficili rapporti familiari. Rappresentato per la prima volta nel 1968, a Broadway, e praticamente inedito in Italia, viene ora messo in scena dalla Compagnia Orsini. Protagonisti sono lo stesso Umberto Orsini, Massimo Popolizio, qui anche regista, Alvia Reale ed Elia Schilton. Tutti riuniti in un unico spazio, un appartamento che diventa il motore im-mobile dei loro dissensi.
Figli di un padre caduto in miseria dopo la crisi del ’29, due fratelli, Victor (Massimo Popolizio) e Walter (Elia Schilton), si incontrano a sedici anni dalla morte del genitore per sgomberare la sua vecchia casa, che sta per essere demolita. Un venditore, l’ebreo novantenne Gregory Solomon (Umberto Orsini), viene chiamato a stabilire il prezzo del mobilio. Victor ha poi una moglie, Esther (Alvia Reale), con problemi di alcool e depressione.
Ne abbiamo parlato con Orsini e Popolizio, insieme alle loro esperienze di vita e carriera nel teatro e per il teatro.
Come avete scoperto Il prezzo?
Umberto Orsini: “Sei anni fa nella libreria del National Theatre di Londra mi capitò il testo tra le mani e la memoria mi riportò a uno spettacolo interpretato da Raf Vallone nella stagione ’68/’69. Cominciai la lettura e fui catturato dal dialogo e dall’attualità della vicenda. Cercai una traduzione italiana, ma era inesistente. Decisi che avrei portato in scena la commedia solo se avessi trovato tre bravissimi attori nei ruoli principali e in tal caso per me avrebbe avuto un senso interpretare Gregory Solomon. I miei desideri si sono avverati: ho tre splendidi compagni e finalmente lo spettacolo gode di una traduzione italiana che viene a colmare una lacuna nell’opera omnia di Miller”.
Il prezzo è uno spettacolo sulle crisi economiche di ieri e di oggi?
Massimo Popolizio: “Il padre di Miller fece bancarotta in seguito alla crisi del ’29: l’economia è lo spunto per la creazione di una situazione, all’interno della quale arrivano i rapporti familiari. La chiave della nostra lettura sta in una battuta di Solomon: “il prezzo dei mobili usati è un punto di vista, se non si capisce quello non si può capire il prezzo”. Dare un prezzo a qualcosa che ti è appartenuto, che fa parte della tua storia (i mobili sono anche metaforicamente il tuo cordone ombelicale con la casa), è un punto di vista. Il testo è bello perché non assolve né condanna nessuno dei personaggi, è la fotografia delle loro diverse opinioni, per questo è anche molto contemporaneo”.
Come ha lavorato sulla regia?
M.P.: “Il prezzo sembra scritto per il cinema, si sente che Miller nella testa aveva la macchina da presa. Metterlo in scena oggi recitando naturalisticamente significava correre il rischio di replicare le pellicole anni ’50, fare una cosa polverosa, vecchia. Allora ho chiesto ai miei colleghi di pensare di essere in un film dei fratelli Coen: quella società può essere cattiva, senza pietà ed è universale, non soltanto americana. Poi ho messo a disposizione quello che conosco e ho imparato, cioè la direzione degli attori: un lavoro di artigianato, chiarire la storia, i rapporti, la grammatica delle situazioni”.
U.O.: “Siamo un quartetto d’archi, abbiamo tempi molto precisi, le intonazioni fanno parte di una partitura, se tu ne senti una diversa ti accorgi che è un errore”.
M.P.: “Comunque nascono sempre da un’esigenza emotiva, non sono solo un suono …”
U.O.: “Alla fine si sente un suono, però”.
M.P.: “Se sei emotivamente in quella situazione allora emetti quel suono e non un altro. Ogni attore ha il suo modo di arrivare alla battuta. L’importante è avere tutti lo stesso obiettivo: costruire una situazione emotiva. Orsini ha un modo molto esterno di arrivarci, ci sono attori che trovano una via molto più interna, dentro se stessi, altri, e sono i più interessanti, copiano come le persone si rapportano alla realtà”.
La Compagnia Orsini è privata. Una bella sfida.
U.O.: “Avere una compagnia privata oggi è estremamente difficile, è un’impresa molto grossa, perché i teatri non pagano, e questo è un vizio capitale che deve essere scardinato. Sono nato con La Compagnia dei Giovani che riunì Giorgio De Lullo, Rossella Falk, Romolo Valli, Anna Maria Guarnieri, Elisa Albani, Giuseppe Patroni Griffi, Pierluigi Pizzi: la sua memoria è legata alla qualità del prodotto che faceva oltre che alla bravura dei singoli. Oggi cerco di fare altrettanto, di costruire una compagnia che raduni insieme a me attori capaci, tra tradizione e innovazione, anche legata alla resa visiva degli spettacoli, e che proponga delle novità, com’è Il prezzo”.
Tra i suoi ultimi spettacoli possiamo ricordare Il giuoco delle parti diretto da Roberto Valerio e La leggenda del grande inquisitore con la regia di Pietro Babina, in cui Dostoevskij si fondeva con la TED conference (le conferenze tenute da personaggi famosi nel mondo dove vengono espresse idee degne di essere diffuse in un tempo massimo di 18 minuti).
U.O.: “La mia voglia di sperimentare nasce dal fatto che mi sento ancora molto vivo nel teatro e ho ancora tanta voglia di farlo. Ad esempio, sono uno che adora la tournée, forse perché non ho la famiglia, non ho una radice precisa, mi piace stare via da casa, mi piace trovare una camera d’albergo nuova. Chi fa tournée fa un gran servizio a questo Paese, trasmette cultura. Nelle piccole città quando arriva uno spettacolo è un evento e tu sei ricollegato per anni a quello, perché hai costruito un piccolo tassello dell’identità del luogo. Parecchia gente conosce il teatro attraverso compagnie private che non sempre però sono di alto livello: mi piacerebbe che la mia fosse riconosciuta come necessaria, una compagnia privata nazionale”.
82 anni d’età, più di 60 sulle scene. È d’accordo con chi la definisce un grande attore?
U.O.: “Mi fa sorridere questa definizione perché i grandi attori erano diversi da me. Non è che sia modesto, è che penso che in realtà non do mai il massimo, resto sempre un po’ indietro, non ho voglia di esibirmi. Lavoro per sottrazione, mi tengo a freno. Sono uno che in un circolo di tennis tira bene, riesce a battere anche qualche compagno, però i grandi attori sono quelli che fanno girare la palla in maniera più veloce, più straordinaria. Al confronto sono un dilettante”.
Chi è o era per lei un grande attore?
U.O: “Gianni Santuccio, Enrico Maria Salerno, punti molto alti a cui non sono arrivato. Nella somma delle cose che ho fatto non ho fatto niente, non ho mai recitato Amleto, né Riccardo III, né Re Lear, nessuno dei personaggi che fa un grande attore. Ho costruito la mia carriera su testi come Servo di scena, I Masnadieri, Copenaghen, Molly Sweeny, su uno sceneggiato come I fratelli Karamazov. La natura poi mi ha dotato di una buona voce, una discreta presenza e di una capacità di invecchiare senza alterare il ricordo del mio fisico, tutte cose importanti, per cui mi sento molto fortunato. Popolizio è un grande attore perché fa delle cose che non so fare”.
Popolizio, lei ha lavorato accanto a maestri come Luca Ronconi, che l’ha voluta con sé anche in Lehman Trilogy dove ricopre il ruolo di Meyer Lehman e per il quale ha vinto quest’anno il premio UBU come migliore attore.
M.P.: “Con Luca Ronconi ho fatto 35 spettacoli e attraverso di lui ho lavorato con tutti i primi attori più importanti, Umberto Orsini, Paolo Graziosi, Corrado Pani, Valeria Moriconi, Mariangela Melato, Anna Maria Guarnieri, Massimo De Francovich. Secondo me si è bravi quando si è molto liberi di trovare qualcosa e molto severi nel ripeterla. Però la libertà non è gratis e neanche la semplicità, sono punti d’arrivo, non di partenza. Lehman Trilogy era uno spettacolo semplice, come del resto lo è Il prezzo, ma dietro c’era una lavoro pazzesco, sia da un punto di vista tecnologico che attoriale”.
Che cos’è il mestiere dell’attore?
M.P.: “Allontanare, in modo sempre più netto, la paura di morire. Tutti vivono così, ma noi lo facciamo molto più di voi, siamo altri, altre vite, in tournée siamo fuori dal mondo. Me ne sono accorto con Luca Ronconi, che è mancato 15 giorni dopo che avevamo debuttato con Lehman Trilogy. Dovendo fare dialisi tre volte alla settimana e continuando comunque a fare le prove, aveva ridotto la sua forza a 5 ore al giorno: in quelle 5 ore non poteva dire cose inutili. Fino all’ultimo respiro. Quella è la vita. Per cui il palcoscenico è un posto vitale, anche se fai le più tristi tragedie”.