MARTINA VULLO | E se un bel giorno il politico acclamato di turno fosse una trans decisamente in-trans-igente verso ogni tipo di diversità?
Difficile da immaginare? A questo proposito ci viene incontro lo spettacolo di Andrea Adriatico Delirio di una Trans populista, andato nuovamente in scena ai Teatri di Vita (dopo le rappresentazioni d’esordio di 2 anni fa) dal 13 al 17 Gennaio, dove una formidabile Eva Robin’s si diletta a fomentare le masse con discorsi pseudo-dittatoriali e dal sapore assurdo (visto che le varie frasi oltre ad essere sconnesse, sembrano contraddirsi fra loro).
Per quanto al discorso surreale si accompagni una scenografia molto essenziale (pochi blocchi di paglia a sostituirsi a una pedana e a delle panche, in una sala svuotata da poltrone), siamo decisamente lungi dalle drammaturgie di Beckett a cui l’autore in passato si è più volte ispirato, lavorando con Eva Robin’s al proprio fianco. L’autrice da cui questa pièce ha tratto ispirazione è stavolta il premio Nobel per la letteratura del 2004, Elfriede Jelinek, a cui il regista ha dedicato un intero trittico di cui Delirio di una trans populista costituisce la prima delle rappresentazioni (a seguire Jakie e le altre e Un pezzo per sport).
“Parole, parole, parole”… non è solo una delle canzoni in cui tre adorabili e barbute fanciulle (Saverio Peschechera, Alberto Sarti e Stefano Toffanin in stile Conchita Wurst, la cantante trans austriaca divenuta fenomeno mediatico mondiale) si esibiscono fra il pubblico, ma la sostanza concreta dalla pièce: L’addio. La giornata di delirio di un leader populista, pubblicato nel 2005, è un testo con cui la Jelinek denuncia, attraverso un collage realizzato con frasi tratte dalla campagna promozionale di Haider, il neonazista austriaco morto alcuni anni fa, restituendo la sardonica e contradditoria immagine di un leader totalmente ebbro del proprio potere.
Il testo di riadattamento è naturalmente un ulteriore taglio sulla sequenza delirante, finalizzato ad una pièce di 50 minuti complessivi, in cui la voce dal vivo di Eva Robin’s è intervallata alla sua registrazione fuori campo, oltre che da momenti di danza ad opera delle tre giovani (e qui non manca la citazione a Pina Bausch, cui è stato del resto dedicato il secondo spettacolo della trilogia).
Chi sono le barbute donzellette? Ma naturalmente i “piccoli”, a cui il leader del pamphlet originario si rivolge (ricordiamo a questo proposito la formula di “partito dei ragazzi di Haider”, nata dalle controversie legate al presunto orientamento sessuale del politico). Possiamo osservarle totalmente omologate con le loro gonne nere, camicie bianche e scarpe comode, nell’atto di cimentarsi in essenziali movimenti in serie, che uniti alla voce femminile e disturbata, che conta fino a quattro fuori campo, ci ricordano gli esercizi imposti alle “belle donne” dell’Italia fascista a inizio ‘900.
Dietro al buffo si fa spazio un quadro inquietante, un po’ come le parole della leader trans (spogliatasi dagli iniziali abiti maschili con parrucca) che ora annuncia: ”loro sono molti… molti di più, ma noi, NOI SIAMO TUTTI”.
E nessuno fra il pubblico potrà sottrarsi al gioco dei tutti quando le tre donzelle, ora in camicia da notte, iniziano a farsi selfie con spettatori a cui fanno indossare parrucche simili alle loro.
Un gesto grottesco dal duplice sapore: estremamente soffocante se colto come l’obbligo (nel gioco della provocazione) ad omologarsi ai tutti, ma allo stesso tempo, come il regista suggerisce, una forma di invito allo spettatore a mettersi nei panni altrui.
Uno spettacolo effervescente e ironico, la cui intenzione può risultare poco chiara in un primo momento, ma che prenderà presto la forma di un grande schiaffo in faccia, che porta il peso dell’improba ipocrisia dei “tutti”, in un 2016 in cui si grida all’uguaglianza, ma molta gente continua a pagare caro il lusso di essere se stessa.