RENZO FRANCABANDERA |Bisogna andare un po’ indietro; alla pubblicazione sofferta, e censurata a più riprese, pur in epoca di perestrojka e glasnost, sul periodico Novyi Mir, di “Strojbat”, coraggioso romanzo di Sergeij Kaledin (pubblicato in Italia da Einaudi) che riportava in racconti oltremodo caustici, alcune memorie del suo servizio militare, prestato in Siberia. Le vicende sono quelle della IV Compagnia, un battaglione logistico del Genio militare, il “Battaglione di costruzione” che raccoglieva la peggior feccia dell’esercito, un miscuglio di miserabili e ultimi, ubriaconi, drogati e delinquenti, spesso anche menomati nel fisico, appartenenti (in una nazione che, come ricorda il testo stesso, occupa un sesto dell’intero pianeta) le più diverse etnie e nazionalità – zigani, ebrei, russi, moldavi, turkmeni. La loro lingua è un esperanto di parolacce e offese, dove l’ebreo, l’arabo, lo zingaro, si avvicendano in una continua offesa reciproca infarcendo la narrazione dei più biechi stereotipi ma soprattutto dipingendo l’esercito come un luogo non di formazione, ma di violenza, frustrazioni, paura.
L’apparato militare russo, che ancora ereditava lo schematismo brezneviano, non poté certo prendere bene gli scritti di Kaledin, pur essendo ormai nel 1988. La pubblicazione venne fermata e riprese l’anno successivo dopo una mediazione con i vertici della sicurezza militare. Lo sfruttamento dei forti sui deboli, il cinismo dilagante, la corruzione, il mercato nero e il trionfo del nonnismo sadico e della logica della delazione, che aveva marchiato i precedenti quarant’anni di storia russa fin dall’epoca delle purghe staliniane: vizi che sembravano non essere mai passati e che per alcuni versi hanno sempre connotato parte della logica del potere, in Russia come in altre nazioni, allora e sotto molti aspetti ancora ora.
Insomma, nel pieno del rinnovamento, mentre cadevano i muri e in Europa sventolavano bandiere con buchi al centro, dopo l’asportazione di falce e martello, di questo scritto c’era a suo modo paura; invece Dodin lo propose ai suoi studenti per confrontarsi assieme a lui in vista del saggio di fine percorso alla scuola del Maly Teatr di San Pietroburgo.
Se non si parte di qui non si può raccogliere in tutta la sua portata la potenza non solo energetica ma anche di satira sociale che questo allestimento porta in sé e che non si chiama Ubu re solo perché in fondo tutti sono Ubu e nessuno riesce ad esserlo, in uno stato di minorità che coinvolge truppe, comandanti, tutti.
La gioventù è un’energia potente e pericolosa, ammaliante e incosciente. Il confronto di questo motore di vita che non cerca altro che la libertà e il piacere con la forza più ottusa della disciplina militare diventa per Dodin un metro per misurare la tensione verso la libertà, lo spazio che in questi spasmi può prendersi la poesia. Shakespeare infarciva di giovani le sue drammaturgie e sempre il contrasto fra giovani e adulti è stato un motore per gran parte della storia del palcoscenico. Figuriamoci poi l’esplosione a fine corso di una classe di allievi di una delle più prestigiose istituzioni teatrali e russe alle prese con una raccolta di racconti uscita da poco e scampata alle maglie strette della censura.
Ne viene fuori Gaudeamus (titolo che rimanda al Gaudeamus, canto medievale della goliardia, trovato in un manoscritto nel 1200 e rimasto vivo fino ai giorni nostri tanto da essere addirittura l’inno ufficiale della Federazione Internazionale di Sport Universitari). E’ un inno alla gioia (altro tema celebre che pure lo spettacolo riprende, facendo forse ora anche sottile ironia sull’Europa che sarebbe venuta), un momento di esplosione della vitalità giovanile che si libera delle catene militari alla fine della naja, per trovare l’amore, il confronto con il mondo.
Uscire dal piccolo universo rappresentato dal plotone, in cui governano debolezza e viltà, diventa quasi impossibile per questi quasi uomini, un microcosmo di disperati che alla fine ispira una tragica compassione. La trama di Kaledin via via sembra quasi sparire per lasciare, nell’ultima parte, spazio all’energia dell’arte, l’unica vera medicina capace di ripulire il mondo dal letame tragico in cui la violenza della guerra e del sopruso lo precipitano. E così in una sorta di doppio finale, dopo che queste anime in pena sono rotolate quasi morte in una catasta umana, ecco il risveglio, la potenza dell’arte, della vita che può essere altro, l’amore, il confronto libero, affidato alla musica, al canto.
Lo stridore di violenza e canto gregoriano, in una scena bianca di neve finta, in cui si aprono botole che inghiottono, quasi risucchiano i protagonisti, con le luci sempre piene, un piazzato che non lascia spazio alla notte è lo spazio in cui Dodin riesce a tirar fuori dal suo gruppo di attori una fantastica prova corale, che allora come ora a distanza di 30 anni (e pur affidato ad altri, nuovi ed efficaci interpreti) sa di vita, di energia, di potenza dell’arte e di squallore miserabile della violenza.
Eppure tutto è tanto credibile e attuale, che quasi non si riesce a capire dove finisca la satira e dove incominci la tragica parodia di una realtà, la nostra, che a più tratti, nello spettacolo, ci ricorda il mondo in cui viviamo, e ce ne viene un senso di smarrita paura e consapevolezza della provvisorietà del vivere. Lì fuori la guerra, una guerra strana che si avvicina senza mai essere nominata, fatta di piccole azioni devastanti. E già la sentiamo addosso. E temiamo i rumori delle armi, noi generazione che non ha conosciuto i grandi conflitti mondiali e che fino ad ora guardava le guerre al tg.
Vita nostra brevis est
Brevi finietur.
Venit mors velociter
Rapit nos atrociter
Nemini parcetur.