ELENA SCOLARI | La morte è un uomo e porta un cardigan. Un remissivo cardigan da professore di ripetizioni di latino (io ne avevo uno che vestiva così), con un buco nella manica, e si porta appresso un piccolo cactus in vaso. Non fa paura, ha l’aria un po’ triste, impiegatizia, scialba.
Aspetta chi la deve raggiungere con pazienza, su una panchina, proprio come un pensionato al parco. L’arrivo di un potenziale “dipartente” dal mondo dei vivi è annunciato da uno sgraziato campanello e dalla luce fioca di un lampione. Un protocollo formale prevede che Morte allunghi le braccia in gesto di accoglienza verso il morituro con un sottofondo musicale. E se vi invitasse ad abbracciarla a passo di samba? Vi congiungereste a lei più volentieri che con il sottofondo di un austero canto gregoriano, no?
Ma per questa variazione brasileira interverrà un angelo operaio, più dinamico, con ali e cintura da idraulico per gli attrezzi, una specie di agente controllore che veglia affinché tutto funzioni, tecnicamente parlando.
Tutto ciò avviene senza parole, il Teatro dei Gordi non usa testi ma proietta sul fondo nero della scena alcuni versi della poesia di Wislawa Szymborska che dà il titolo allo spettacolo: Sulla morte senza esagerare. A mo’ di cartelli del cinema muto. Una stampella di senso usata in modo un po’ scolastico, a dire il vero.
I versi scelti parlano di una morte impacciata, imprecisa, che subisce sconfitte,
che non sa fare neppure ciò
che attiene al suo mestiere:
né scavare una fossa,
né mettere insieme una bara,
né rassettare il disordine che lascia.
E questa morte – con maschera di teschio – ci fa anche un po’ tenerezza, impegnata in un lavoro noioso, in fondo, goffamente costretta ad infilarsi il tipico cappuccio nero per incutere un po’ di timore, ma con quel cardigan…
Prova a fumarsi un sigaro infilandoselo nell’orbita dell’occhio ma viene sempre interrotta. Niente da fare.
I cinque attori (Claudia Caldarano, Giovanni Longhin, Andrea Panicati, Sandro Pivotti, Matteo Vitanza) usano maschere di cartapesta molto belle (di Ilaria Ariemme), che ricordano le caricature, tratti marcati, facce più grandi del vero, con i difetti accentuati. Direi quasi che sono le loro maschere, perché movenze e fisicità sono per tutti fortemente legate all’area semantico/prossemica che la maschera immediatamente evoca: i vecchi tremolanti, la prostituta sguaiata, la donna incinta a schiena inarcata, il giovinastro dall’andatura molleggiata…
La struttura dei 35 minuti di spettacolo (ideatore e regista Riccardo Pippa) è il susseguirsi dei personaggi che dovrebbero morire: il meglio tratteggiato è un buffo e anziano signore in impermeabile, una via di mezzo tra Prodi e Andreotti, che compare in scena con un grosso cappio, molle, al collo. Ha con sé una lettera (forse la propria lettera di suicidio), che consegna alla morte compìto come un compito, ella la legge, gliela restituisce, gli stringe un po’ il cappio e fa capire che ci deve riprovare. Non è il momento. Il signore se ne andrà riarrotolando la sua lunga corda. Ma continuerà a tornare, più volte, prima o poi ce la farà.
I più poetici sono due vecchietti, lei che amorevole gli abbottona la giacca del pigiama perché sia presentabile all’appuntamento, lui che abbraccia Morte e trapassa facendosi sfilare la maschera, qui si ri-svela giovane, e saluta la vecchia moglie con l’aspetto del suo momento più vigoroso, che ora riprenderà. Per sempre.
Molto meno riusciti perché troppo accennati e frettolosamente liquidati sono la futura mamma trattenuta alla vita dal nascituro che la tira verso l’aldiquà, un soldato che corre impaziente verso la fine, e un giovane in tuta che corre troppo in macchina.
Emerge un po’ di meccanicità, che forse anche Morte avverte, tanto da dover cedere il posto ad un sostituta, aver cambiato il golf non è bastato: questa signora della Fine non è eterna.