ROBERTA LEOTTI | “Diventate infelici”, è lo slogan provocatorio del Circo Oscuro; la magnifica performance di Romain Bermond and Jean Baptiste Maillet, visual artists della Stereoptik, di recente in scena al Barbican.
I due artisti sono ai lati opposti della scena con due diverse postazioni: strumenti musicali alla parte sinistra per Maillet ed al lato opposto per Bermond, un tavolo con una base di vetro su cui è posizionato l’obiettivo di una telecamera, disegni, sagome di cartone ed ancora, pennelli e boccette varie… sì perchè la loro esibizione è tanto la storia proiettata, quanto il come questa viene creata al momento.
Una sorta di simbiosi, un momento di evasione che il duo vuole condividere con il pubblico, mostrando una storia attraverso la combinazione di tecniche cinematografiche ed altre tradizionali, legate alle abilità di cartonista, disegnatore e burattinaio.
L’attenzione del pubblico passa con curiosità e meraviglia dalla precisione creativa della manualità Romain con l’accompagnamento elettroacustico di Jean-Baptsite allo spettacolo circercense proiettato, nato dalla collaborazione con l’autore francese Pef, nonchè amico degli artisti.
Romain letteralmente strabilia il pubblico riuscendo a creare una sagoma con l’acqua e Jean Baptiste in un altro numero, a dare densità alla stessa, grazie ad un forte contrasto bianco e nero, il tutto utilizzando un piccolissimo acquario, dalle dimensioni di una scatola da scarpe ed arti di porcellana a rappresentare il numero dell’artista del circo che fa immersioni.
Bianco e nero sono i colori predominanti della proiezione per buona parte della show, come le scene inziali poetiche e malinconiche del paesaggio dove la tenda da circo trova collocazione, ma nonostante i fatti catastrofici proiettati, la storia e’ un crescendo di ritmi e colori.
Sebbene il presentatore del circo mantiene sempre il suo aplomb, non scomponendosi minimamente per la morte degli artisti, il gran finale con la parata degli artisti circensi è un elogio alla vita, tra colori sfavillanti e musiche dalle basi reggae.
Una stupefacente esibizione per perfetta sincronia dei due artisti e la varietà di espedienti tecnici che lasciano innegabilmente lo spettatore indeciso se volgere l’attenzione agli artisti o alla storia.
Di tutt’altro genere la seconda proposta del Vamos Theatre che lo scorso fine settimana ha portato in scena lo spettacolo di mimo: The Best Thing al Jackson Lane Theatre.
Il titolo rimanda alla frase spesso utilizzata con le giovani, anche subito dopo aver partorito, per rendere piu’ indolore e veloccizzare il processo di adozione: “it is the best thing for the baby, it is the best thing for you; sign here.”
La scenografia anticipa e svela la tematica della pièce: certificati di nascita e foto di bambini sono incollati a decoupage sui pannelli ai lati della scena e sulla cornice della struttura centrale, leggermente sopraelevata rispetto al resto della scena e chiusa quasi fosse una vetrina di un negozio.
Certamente un accorgimento per dare una diversa dimensione ed enfatizzare maggiormente le vicissitudini della protagonista ed a rimarcare forse, quanto la giornalista Yvonne Roberts denuncia nel suo articolo per il Guardian e spunto della drammaturgia: il dramma delle giovani non sposate che negli anni sessanta furono costrette a dare i figli in adozione.
La drammaturgia si sviluppa in due diversi periodi che si alternano, si contendono o interagiscono nella scena dando un certo movimento ad uno script che forse manca di originalità: il presente con una giovane donna alla scoperta delle sue origini (Lisa) e la storia della madre di questa (Susan) quando fu costretta a darla in adozione.
Gli arrangiamenti scenici, ma specialmente le coreografie di Rchael Alexander con le musiche di Janie Armour, riescono a dare spessore anche a quelle scene carenti di complementi scenografici.
Tra queste, la divertente lezione di dattilografia dove i protagonisti sono seduti su sgabelli e perfettamente coordinati, mimano il battere sui tasti ed il riposizionamento del rullo non appena arrivano alla fine della riga e coincidente con il suono del campanellino di fine battitura.
Gli attori in scena sono ridicolmente sgraziati dalle maschere di Russell Dean; tutte con naso ed occhi sproporzionati e dalle espressioni spesso severe.
Tuttavia non cosi’ grottesche da non riuscire a convogliare il pathos richiesto della scena principe con il padre che prende la mano alla figlia ad “aiutarla” a firmare per l’adozione della nipote.
Questa è anticipata da un’ altra scena comica di due partorienti in travaglio, le cui maschere e suoni associati alle contrazioni sono irresistibili, così come le enormi camicie da notte e pantofole di pelo a completarne il look di scena volutamente esagerato.
In contrapposizione, il parto della protagonista non è associato nessun suono a testimonianza della solitudine del momento, tra la paura e l’indifferenza dei modi frettolosi dell’infermiera di turno.
Ancora più dolorosa a breve sopraggiunge la separazione tra la madre e la figlia; momento decisivo vissuto quasi in un’immaginaria interazione tra le due donne, qui ben interpretate da Angela Laverick e Sarah Hawkins.
Nonostante la buona coesione tecnica ed artistica della Vamos Theatre, forse la tipologia di arte performativa qui utilizzata non risulta fino in fondo la più appropriata il tema trattato, tanto difficile quanto sentito nel Regno Unito.