LAURA NOVELLI | Ho sempre seguito con vivo interesse il lavoro di Pippo Delbono e ho molto amato i suoi spettacoli. Alcuni più di altri sono entrati nella mia memoria (cito almeno Orchidee, Dopo la battaglia, Questo buio feroce, Il silenzio) forse perché meglio di altri mi hanno saputo regalare una sensazione di “sacralità laica”.
Una sorta di pietas morbida e al contempo ribelle che, insinuandosi tra le parole, le musiche, le immagini, i corpi spesso inconsueti dei suoi attori, arrivava al pubblico sotto forma di respiro generale, di “sovratono” capace di tradursi in un misticismo profano attraverso cui mi sembrava che il Teatro stesso ritrovasse – o tentasse di ritrovare – la radice più profonda della sua necessità.
Sicuramente con il passare del tempo certi cliché si ripetevano, certe figure apparivano presenze prevedibili, l’enfasi si faceva sempre più pericolosa, l’autobiografismo entrava in misura troppo abbondante nel corpo delle creazioni sceniche. Ma quando l’artista ligure è riuscito ad evitare modelli drammaturgici abusati e a lavorare su una compattezza che fosse sinonimo di compostezza e unicità di visione, il suo teatro – così fisico, così energico, così urgente, così vibrante di materiali diversi – ha davvero offerto agli spettatori una poeticità vitale e fuori dal comune.
Motivo per cui in questo Vangelo, presentato al teatro Argentina di Roma nella versione in prosa messa a segno partendo da un originario impianto operistico (debutto al Teatro Nazionale Croato di Zagabria a dicembre), mi è parso di poter individuare un’involuzione rispetto al precedente Orchidee. O forse, una difficoltà a dire, contenutisticamente e stilisticamente, qualcosa di nuovo.
Il sipario è già aperto prima che inizi la performance. Undici sedie rosse aspettano vuote che la scena si animi: verranno occupate poco a poco dagli interpreti (ma in tutto sono quindici le presenze sceniche, tra cui i compagni di sempre, Bobò, Gianluca Ballarè, Pepe Robledo) che in abiti eleganti e persino vistosamente kitsch, si siedono e guardano il pubblico in silenzio per qualche minuto.
La musica è alta, prepotente, bellissima. L’ha composta Enzo Avitabile per orchestra e coro polifonico ed entra nello spettacolo come fosse un altro personaggio, una presenza evocativa e insieme sanguigna, concreta.
Pippo arriva dal fondo della platea vestito di nero e racconta la genesi di questo lavoro rovistando con naturalezza tra le parole della sua partitura: ancora una volta è la morte della madre a stimolare l’ispirazione. Da profonda cattolica quale è stata, ella, ormai anziana, gli suggerisce di fare uno spettacolo sul Vangelo e lui accoglie la sfida, si mette a scavare nelle suggestioni verbali ed iconografiche che da quel Libro scaturiscono, ne ascolta le pieghe più contemporanee. E scopre che la forza di quella parola sta tutta in un messaggio di Libertà, di Amore puro.
Si affastellano le suggestioni, gli spunti: da Prévert (risuonano i versi di Questo Amore) a Pasolini a Sant’Agostino, dalle epopee dei migranti (quelli, nello specifico, del Centro di Accoglienza PIAM di Asti) a citazioni musicali pop e rock.
Brani canori, danze, immagini proiettate sul fondo, quadri umani a tratti molto riusciti e a tratti invece, meno incisivi, ricompongono l’universo di un cattolicesimo che trasforma l’inferno in diavoli quasi carnevaleschi, che stana gli ultimi della terra per dare loro una voce, che mette i rifugiati di un centro di accoglienza dentro le riprese video per un film di prossima uscita (avrà lo stesso titolo di questo allestimento).
I frammenti restano tuttavia frammenti; Pippo danza di spalle in un gioco di luci chiaroscurale, cuce insieme biografia e Storia umana, forse prega.
Mi viene in mente qualche passaggio di The End dei Babilonia Teatro, poi qualche altra degli spettacoli “cristologici” di Romeo Castellucci. A ben vedere però non c’è un filo conduttore preciso e l’insieme appare sfilacciato, ripetitivo.
E’ senza dubbio la musica a dominare, ad avvolgere il corpo di questo lavoro garantendo momenti di profonda emozione come l’esecuzione dello Stabat Mater Dolorosa. La sofferenza di Maria si fa carico del dolore dell’umanità, di ogni tragedia, di ogni morte.
Siamo quasi all’epilogo: Delbono torna al tema della libertà, della gioia, del Vangelo come luce: “Se ce lo avessero raccontato così!”. Invece non ce lo hanno raccontato sempre così.
E mentre vado via dal teatro mi viene voglia di rileggere il meraviglioso commento al Padre nostro scritto da Simone Weil, con quella luminosa premessa: “Mi sono imposta, come unica pratica, di recitare il Pater una volta ogni mattina […]. Talora già le prime parole strappano il mio pensiero dal mio corpo per trasportarlo in un luogo fuori dallo spazio, dove non c’è prospettiva, né punto di vista. Lo spazio si apre”.
La forza di Delbono sta proprio in questo. Spero di vederlo.