RENZO FRANCABANDERA | Era successo con Eigengrau di Penelope Skinner, andato in scena al Filodrammatici di Milano a fine dell’anno passato. Un testo dolceamaro sulla solitudine nel nostro tempo, per una co-produzione fra Teatro Filodrammatici e Carrozzeria Orfeo, e una co-regia che avvicinava due sensibilità che hanno obiettivamente molte caratteristiche in comune, quelle di Gabriele Di Luca e Bruno Fornasari. Si erano avvicinati fra loro,  prima che li avvicinassi io con questa riflessione.
A distanza di due mesi da quell’esito congiunto, infatti, i due registi sono tornati a proporre due creazioni delle rispettive compagnie, Fornasari al Filodrammatici con Parassiti Fotonici e Di Luca con Animali da bar all’Elfo. E di questi parliamo, cercando poi una riflessione comune.

FOTO SPETTACOLO ?ANIMALI DA BAR?Animali è concettualmente, per quanto ci appare, il secondo atto di un dittico sulla solitudine metropolitana il cui primo atto era stato quel Thanks for Vaselina che ha fatto molto bene al botteghino e che avrà probabilmente una versione cinematografica a breve. Anche Animali porta in scena altre sei solitudini, incompiuti del sottobosco urbano, le cui vite si incrociano in un bar, crocevia del poco. Cinque sono in scena in carne ed ossa, Beatrice Schiros, Gabriele Di Luca, Massimiliano Setti, Pier Luigi Pasino, Paolo Li Volsi, mentre il sesto appare evocato dalla voce fuori campo di Alessandro Haber, il proprietario del bar, malato terminale.
L’eloquio e la struttura narrativa proseguono con ancor maggior decisione la strada già imboccata  in Thanks, con un linguaggio popolare e privo di orpelli, in cui le vite si raccontano crudamente per quello che sono.
Attorno al bancone, come il lupo e l’agnello al fiume, arrivano finti forti e veri deboli, pronti a far boccone di chi nella scala sociale occupa il gradino di poco inferiore. Un iperrealismo descrittivo che in Thanks faceva entrare l’odore di “maria” nelle narici degli spettatori, e qui invece ci porta in un quadro di Hopper scomposto e rovinato dai suoi stessi personaggi.
La logica della scala sociale, dei rapporti è feroce e la compassione un miraggio per queste esistenze apparentemente senza speranza. Invero alla fine un po’ di buonismo affiora (e usiamo l’ismo perché se davvero l’intenzione fosse portata fino in fondo occorrerebbe non lasciar spazio a piccole derive moraleggianti che invece qui e lì trovano spazio, anche linguisticamente scollate dal resto). Il montaggio cinematografico, cui fin dall’inizio si fa omaggio anche attraverso le luci di Giovanni Berti, è la cifra più riconoscibile di una regia a tre, affidata allo stesso Di Luca, insieme ad Alessandro Tedeschi e Massimiliano Setti, che ha composto anche le musiche.

Parassiti fotonici 1Più ibrida per le ispirazioni la regia che Fornasari regala di Parassiti Fotonici, testo dell’anno scorso di un talento istrionico e poliedrico come quello di Philip Ridley, affidato all’interpretazione di Tommaso Amadio, Federica Castellini ed Elisabetta Torlasco in una scena molto poco realistica che Aurelio Colombo pensa, suggestionato dal tema della casa in costruzione, con una serie di piantine architettoniche ingigantite e stampate in bianco su fondo blu, con un richiamo ad un’Inghilterra liberty tutta festoni e ricciolini. Massimiliano Setti compone le musiche anche per questo allestimento.

La trama racconta di una giovane coppia in attesa di un figlio che, per riuscire a garantirsi la casa dei sogni, accetta progressivi compromessi con la morale in una deriva che li trasformerà in due criminali. E come in Macbeth,  in ultimo sarà lei a venir fuori con la sua melliflua spregiudicatezza.

Di certo, le affinità, che il teatro dei due registi rivela, indicano il suo progredire verso una forma per così dire stilizzata di messa in scena, che alla distanza di alcuni anni permette di distillare alcuni fenomeni tipici.

Un fatto è sicuramente l’utilizzo di un linguaggio e di una meccanica della costruzione in rapporto diretto con il nostro presente e semanticamente vicina a cinema e tv. Possiamo dire che i due siano, ciascuno con il proprio specifico, interpreti di una sorta di esperanto massmediale, che coinvolge le scelte di messa in scena in senso ampio. Non è un caso, come si diceva, che di Thanks for vaselina stia per arrivare una trasposizione cinematografica, e che Animali da bar abbia un inizio molto molto cinematografico, con un fast rewind in cui gli attori si muovono al contrario come se si stesse riavvolgendo una pellicola. Più lampante di così…

Anche Fornasari nei suoi ultimi allestimenti (e drammaturgie, visto che alcune regie recenti erano trasposizioni sceniche di sue scritture) utilizza la logica che chiameremo per comodità da commedia americana, ovvero sketches più o meno collegati fra loro, in un susseguirsi di vicende intonate ad un humor nero, molto contemporaneo, vicino a quella commistione linguistica che è figlia della rivoluzione letteraria post punk per un verso, e delle sue declinazioni più televisive e pop per altro. La vera lezione di composizione non è qui il classico (che pure qui e lì rivive, come si può assaporare uno spruzzo di epica e dialettica à-là-Macbeth, come si diceva, in questo Parassiti fotonici) ma la serialità americana che nella drammaturgia teatrale britannica è molto usata, quella capace di avvincere lo spettatore con storie in cui il ritmo è l’ingrediente principale, unito ad una familiarità del linguaggio e a vicende ordinarie, ma capaci di derive surreal-fantascientifiche. E qui nel teatro si aggiunge il tentativo, che il piccolo e grande schermo non possono sperimentare ancora per vincolo tecnologico, e che è una costante delle regie di Fornasari di ingaggiare con le battute, con gli sguardi, con le intenzioni, il pubblico in modo diretto.

Alla fine per lo spettatore finisce per essere sempre un incontro leggero, piacevole, emotivamente conveniente perché avvicina senza mai allontanare, perché, anche dove ripugnante, l’esperienza è mediata da un recitato che, proprio perché improntato ad un tono “televisivo”, non disturba. Racconta il ripugnante ma con la logica di mettercelo in tasca come se fosse nostro, strizzando l’occhio come a dire “Dai, in fondo anche tu lo faresti…, anche tu un po’ sei così…”.

E qui vediamo, per converso, il rischio di questo approccio drammaturgico-registico alla parola nuova, un rischio che si sostanza eminentemente nella scelta di un dialogo prioritario fra l’aldiqua e l’aldilà del palcoscenico, driver di scelta principale nell’approccio alla creazione; come se l’interesse precipuo un po’ soggiogasse quello che il regista ha da dire alla volontà di farlo senza allontanarsi da quello che (o da come) il pubblico ha voglia di sentirsi dire, o vedere. 

E’ questo un rischio sempre forte nelle compagnie italiane che hanno cercato e trovato con successo il confronto con il contemporaneo, riuscendo bene con gli incassi e sovvertendo un trend che aveva per molti anni anche allontanato il pubblico dal teatro. Era stato ad esempio un rischio che avevamo visto nelle creazioni registiche del duo Ricci-Forte e del loro linguaggio.

Il tema cui ci riferiamo è quello della ricerca di una cifra comunicativa che, nel lungo andare, rischia di appiattire la creatività su stilemi che si tirano dietro un po’ tutto, dalla recitazione al pensiero sull’allestimento scenico, arrivando ad una serialità di emanazione cine-televisiva, dove l’ennesima puntata rischia di far sbiadire via via tutta la serie che l’ha preceduta. Come tutte le serie ha un seguito di pubblico importante, che batte mani (e spesso anche i piedi per il visibilio), un gruppo nutrito di appassionati che alimenta e rende finanche ovvie, per chi crea, le ragioni della scelta; ma è proprio da questo rapporto difficile fra botteghino e pubblico, creatività e libertà espressiva che vediamo minacciare due intelligenze originali e diverse dal solito come quelle di De Luca e Fornasari.

Il loro essere fra i primi e più convincenti interpreti di questa drammaturgia che mescola humor e in-yer-face (ma il tema non riguarda solo loro e questa riflessione va estesa ad altri), è certamente un merito, ma occhio a non trasformarlo in un marchio di fabbrica, perché quando questo, come tutti i gusti, prima o poi verrà a noia, la loro creatività si sarà legata a questa cifra in modo gordiano, e difficile sarebbe a quel punto spostarsi a cercare altrove, cosa che invece è sempre bene fare, in un presente contemporaneo dove è essenziale cercare il modo senza mai trasformarlo (e trasformarsi) in moda.