LAURA NOVELLI | Si respira sempre una spietatezza di fondo nei testi del drammaturgo americano Neil LaBute, nome di punta del teatro contemporaneo d’oltreoceano e ben noto anche in Italia grazie alla Biennale di Venezia (Improve for Writers: learn to write on impulse and without fear si intitolava il percorso formativo tenuto da LaBute nel 2012 e AdA – Author directing Author il progetto che lo ha visto coinvolto nel 2014) e grazie, tanto più, al personale interesse che da sempre Marcello Cotugno nutre verso la sua scrittura e i suoi lavori.
Dopo aver messo in scena opere quali Bash, La forma delle cose, Re(L)azioni e La distanza da qui, il regista campano torna alla scrittura ruvida, diretta, intelligente e assai poco consolatoria di LaBute con una versione italiana di Some Girl(s) (di cui cura anche traduzione e adattamento, insieme con Gianluca Ficca) dove si racconta senza enfasi né fronzoli l’immaturità pericolosa di un mondo maschile incapace di fare i conti con i propri sentimenti e con le proprie responsabilità (argomento già affrontato nella celebre pièce La società degli uomini, tradotta anche sul grande schermo) e all’infantile ricerca di “giubbotti di salvataggio” che diano l’illusione di poter sopravvivere – di poterla “sfangare”– senza dettami morali.
Ovviamente anche qui in ballo ci sono dei rapporti umani, nello specifico di coppia, e c’è quella riflessione ossessiva sulla ricaduta delle nostre azioni, su quale ruolo giochiamo nella vita degli altri quando ci comportiamo in un certo modo o diciamo certe cose che è un tema assai caro a LaBute ma anche – e soprattutto – un tema mitologico, archetipico, da tragedia classica.
Al centro dei fatti troviamo Guy (l’ottimo Gabriele Russo), uno scrittore quarantenne che insegna letteratura e che, prossimo al matrimonio, prima di compiere il grande passo decide “scientificamente” di rincontrare alcune delle sue ex fidanzate per chiedere loro perdono del male che, in misura e in forme diverse, può aver causato loro. Ma questo è in realtà un pretesto – e non sappiamo neanche quanto credibile agli occhi dello stesso protagonista – che facendo eco ad un dongiovannismo rivisitato in chiave illuministica colloca Guy tra i catalogatori dei sentimenti e delle emozioni nascondendo forse un obiettivo più subdolo, più perverso: andare a verificare – come tra l’altro gli dice l’arguta Bobbi – la giustezza delle sue azioni passate.
O meglio: convincersi dell’idea che la donna scelta come futura moglie sia di gran lunga migliore delle altre e in che misura le altre, quelle che lui ha matematicamente mollato fuggendo come un adolescente immaturo, abbiano ancora un legame con quelle vecchie storie, un rancore, un dolore o, viceversa, un ricordo nostalgico.
Non a caso, proprio durante la conversazione con Bobbie (una disinvolta Martina Galletta), capiamo che esse sono tutte possibili soggetti dei suoi futuri racconti; sono materiale umano messo sulla graticola della provocazione emotiva e in questo il grigiore del personaggio risulta davvero disarmante. Il testo tuttavia arriva a questo vertice di tensione in modo progressivo, procedendo quadro per quadro e addizionando i diversi incontri come pezzetti di una bomba ad orologeria: la stanza degli appuntamenti è sempre una camera d’albergo che, nella limpida regia di Cotugno, cambia il colore di sfondo a seconda della tipologia femminile in ballo.
Sam è probabilmente la più fragile di tutte (molto incisiva la prova di Laura Graziosi); Tyler (Bianca Nappi) sembra la più forte, la più seduttiva, ma nasconde pieghe di profonda sofferenza; Lindsay, affidata alla spumeggiante interpretazione di Roberta Spagnuolo, è quella più capace di attivare una forma di vendetta e Bobbie è la chiave di volta per comprendere la natura profonda di quest’uomo così lontano dal mondo intimo dell’altra, degli altri. Esiste inoltre una quinta, languida, figura che gli spettatori possono conoscere on-line collegandosi al sito www.bit.ly/Part4reggie e si tratta di una giovanissima donna che Guy baciò e palpeggiò quando lei aveva appena dodici anni.
Come di consueto negli allestimenti di Cotugno, la musica (dai Rolling Stones a The Cramps, da Karen Dalton a Nils Fraham) gioca un ruolo di primo piano e scandisce il ritmo sostenuto del lavoro assecondando i decisivi tagli di luce chiamati a disegnare questo chiaroscuro dell’animo umano.
Il proscenio del palcoscenico (quello del Piccolo Eliseo di Roma dove questo pregevole spettacolo, prodotto dalla Fondazione Teatro di Napoli, replica fino al 14 febbraio) è poi occupato in alto da una lavagna con formule matematiche e fisiche, quasi a voler indicare il calcolo sempre ostico e misterioso dei sentimenti, delle relazioni, degli incontri umani.
Ma per fortuna la matematica ha poco a che fare con gli sgambetti delle passioni e, solamente il senso di una “necessità” sofoclea, di una “ananke” tragica, potrebbe aiutarci ad assolvere Guy dal suo micidiale cinismo.
Solo che, da Amleto in poi, la necessità delle azioni riguarda la coscienza personale e l’assoluzione in molti casi è davvero impossibile.