ANGELA BOZZAOTRA | La compagnia Aterballetto apre il Festival Equilibrio di Roma con ben tre coreografie, caratterizzate da diversi stili, toni e poetiche. All’insegna della ricerca e della sperimentazione più “cerebrale” e analitica è l’opera commissionata a Michele di Stefano, ovvero Upper-East-Side (2014). Se il primo richiamo evidente è al quartiere omonimo di Manhattan, risulta altrettanto limpida l’intenzionalità della struttura coreica di richiamarsi all’apparato urbano e geografico del luogo deputato a marcatore di senso della coreografia.
Come isolati urbani uniti unicamente da strade e quadrivii, i danzatori di Aterballetto eseguono una partitura estremamente complessa, che si alterna in linee e direzioni parallele e/o divergenti. Analiticamente, Di Stefano fa scorrere la danza su piani differenti, scrivendo per contrasto e utilizzando le opposizioni fluidità/immobilità, uno/molteplice, corpo/assenza. Blocchi di danzatori si assiepano su una diagonale, mentre spicca un assolo improvviso che catalizza l’attenzione, formando di fatto una geografia instabile e mutevole all’interno dello spazio scenico.

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Il sillabario che va dunque a formarsi, funziona come un organismo vivente animato dall’ensemble di corpi; atletici questi ultimi, giovanissimi eppure dotati di una notevole precisione nell’esecuzione e nella qualità del movimento. Ad un occhio più attento affiorano le caratteristiche dello stile di Di Stefano, ossia la ricerca sulle possibilità del corpo di comporsi e scomporsi in disequilibrio, l’accentuato uso dell’a-ritmia e della roteazione unita alla gravitazione. Accompagnati da un sound design di prim’ordine, che colpisce nel mantenersi sul border tra noising e musicalità, i danzatori si confrontano con una coreografia che unisce elementi ballettistici totalmente stravolti da note contemporanee e dirompenti. Una sfilata di geroglifici su un equilibrio instabile tra terrazzi di grattacieli e giardini pubblici, solitudini urbane e vibrazioni interiori.

A seguire l’intermezzo costituito da e-ink, coreografia del progetto Ric.ci di Marinella Guatterini, risalente agli anni Ottanta, interpretato da Philippe Kratz e Damiano Artale entrambi di Aterballetto. Rispetto alla versione con Caravano e Di Stefano (MK) come interpreti, qui il gusto consiste nel appurare che una delle più curiose opere della “vecchia” Nuova Danza italiana è ormai divenuta un classico. I giovani danzatori la interpretano con un’energia estremamente comunicativa; ricordano figure di un videogioco, icone con improbabili t-shirt bianche aderenti con due “E” disegnate in nero, nel loro interagire con lo spazio saltando e muovendo le braccia agitando segnali stradali invisibili, come sagome irrequiete in preda a scosse elettriche. Anche qui, una danza urbana de-territorializza il palco della sala dell’Auditorium, donando un sentire extra-accademico ed extra-scolastico, irriverente e richiamante quegli stilemi propri della Nuova Scena degli Ottanta, dove il corpo era connotato dalla compressione delle metropoli neonate tra enfatismo e resilienza.

Il trittico si chiude con la coreografia L’eco dell’acqua del giovanissimo Phlippe Kratz. L’opera trae ispirazione da una lirica di Goethe Gesang der Geister über den Wassern (Canto degli spiriti sulle acque) e dal disastro dell’aereo MH17 delle Malaysia Airlines, abbattuto nel 2014 da un missile in terra ucraina. La poesia di Goethe recita: “L’anima dell’uomo è simile all’acqua: viene dal cielo, risale al cielo, a terra di nuovo ridiscende, in eterna vicenda”. E ancora: “Se sul suo corso s’ergono rupi, spumeggia irosa di grado in grado verso l’abisso”. I versi sono declamati attraverso un microfono posto in avanscena da una danzatrice, non italiana, con accento latino.
In un atmosfera luttuosa, in uno spazio scenico completamente nero e corredato da un’enorme tenda del medesimo colore quale fondale, i danzatori di Aterballetto narrano di fatto la tragedia delle vittime del volo aereo, prese come emblema della precaria condizione umana. La caduta è resa attraverso l’uso della scenografia: l’elica dell’aereo si illumina e gira nascosta dietro alla tenda nera, mentre i danzatori si coprono il volto vinti dalla catastrofe che li attende. L’illuminazione sdoppia la scena; nel momento in cui il disastro avviene, è la platea e con essa gli spettatori ad essere illuminata, mentre i corpi in scena danzano nella semi-oscurità, a rimarcare che ormai sono passati al di là dell’esistenza, incontrando il non-essere, dunque la morte. Il finale vede un gonfiabile nero modellarsi alle spalle dell’enorme “sipario” nero, sul quale i danzatori “atterrano”, quale grande abisso che li inghiotte, e li accoglie allo stesso tempo.
Sul piano prettamente coreico, Kratz dona allo spettatore un’opera dove il linguaggio della danza è astratto e insieme narrativo. Al fraseggio più virtuoso si unisce una gestualità quasi mimica; in un susseguirsi di contatto e distacco, assoli e passi d’insieme, i danzatori si librano in calibrati virtuosismi senza mai perdere di vista l’interpretazione complessiva della poetica dell’opera.
Il tema della catastrofe di L’Eco dell’acqua di Kratz va a chiudere il trittico di Aterballetto donando uno slancio dinamico verso l’apertura della pratica della danza a discorsi ampi e di spessore, e restituisce il ritratto di una compagnia ben salda, corroborata dalla padronanza di un registro variegato e complesso fatto di tematiche e tecniche di fine elaborazione.