MATTEO BRIGHENTI | “Le questioni di genere sono cruciali per la nostra società. Si può andare avanti a ragionare all’infinito sul femminile, ma se non si affronta anche il maschile non si otterranno mai grandi risultati, solo briciole”. Per questo Marta Cuscunà nel suo nuovo Sorry, boys ha lasciato la scena agli uomini, sia adulti che adolescenti. È la terza tappa del progetto sulle Resistenze femminili dopo la prima sulla staffetta partigiana Ondina Peteani e la seconda sulle clarisse del Santa Chiara di Udine che nel ’500 trasformarono il loro convento in un luogo di libertà. “In È bello vivere liberi! e ne La semplicità ingannata – prosegue – restava in secondo piano il ruolo svolto dalle figure maschili, ma io non voglio che le questioni di genere restino incastrate in storie al femminile: hanno a che fare con l’uguaglianza, la giustizia e la possibilità di esprimersi di tutti. La parità tra uomini e donne è alla base di tutte le altre forme di uguaglianza e solidarietà”.
Sorry, boys cerca quindi di indagare come stanno oggi i giovani maschi, che uomini adulti si preparano a diventare e qual è il modello di mascolinità in cui si riconoscono o a cui aspirano. E lo fa nella cifra stilistica della giovane artista di Monfalcone, che unisce Storia e teatro di figura, estro, passione e ribellione, una poetica premiata dall’affetto del pubblico e dell’attenzione della critica (dal Premio Scenario per Ustica del 2009 al Franco Enriquez del 2013).
Abbiamo raggiunto Marta Cuscunà al telefono.
Come nasce Sorry, boys?
“Nel 2008 a Gloucester, nel Massachusetts, 18 ragazze di una scuola superiore, tutte under 16, rimangono incinte contemporaneamente. In quell’anno il numero delle ragazze madri della scuola risulta 4 volte superiore alla norma. Ma la cosa veramente sconvolgente è che sembra che la vicenda non sia frutto di una strana coincidenza, ma di un patto segreto. Le 18 ragazze avrebbero deciso di rimanere incinte nello stesso momento per aiutarsi una con l’altra e allevare i bambini tutte insieme, nella stessa casa, in una specie di comune femminile. A differenza degli altri lavori qui non c’è la parte del mio monologo, fanno tutto loro”.
I pupazzi.
“Ci sono dei punti nelle storie che racconto in cui le parole non mi bastano più e allora mi faccio aiutare dai pupazzi. In È bello vivere liberi! e ne La semplicità ingannata li uso nel momento in cui le protagoniste perdono la loro libertà e si trovano sulla soglia tra il diventare marionette manovrate da altri e sperimentare una forma di riscatto inimmaginabile e inaspettato. Nel primo è quando Ondina viene deportata ad Auschwitz, nella secondo è il varcare la soglia della monacatura forzata. In Sorry, boys i pupazzi sono gli adulti e adolescenti maschi messi in scacco dalle ragazzine che hanno pianificato la gravidanza di gruppo”.
Quindi anche loro sono inermi e manovrati. In scena sono resi attraverso delle teste “animatroniche”. Da dove viene questa idea?
“Quando ho avuto l’immagine di questi personaggi messi con le spalle al muro mi è tornata in mente la serie fotografica We are beautiful del francese Antoine Barbot che aveva messo teste umane dentro i trofei di caccia. Ho proposto a Paola Villani, ex Pathosformel, di realizzare le teste nel modo più realistico possibile. Abbiamo lavorato sull’espressività facciale: avevamo bisogno di leve con cui riprodurre i movimenti nuscolari e quindi Paola ha creato un meccanismo di freni di bicicletta, per cui queste facce, oltre a muovere il collo, aprono e chiudono la bocca, le sopracciglia. 33 leve movimentano i vari punti dei visi, con pedali e freni, ho il mio bel da fare”.
A te però in qualche modo ti si vede.
“Sono visibile, la struttura che regge le teste ha il minimo indispensabile per tenerle su, si vede il mio corpo, dai trofei si vedono le mie mani che muovono i freni. Sono convinta che non serve sparire, a un certo punto il pubblico non ti guarda più, anche se sei lì dietro, e decide di credere che sono i pupazzi ad animarsi da soli”.
L’assenza di un momento di narrazione è dovuto dalla storia che racconti o è uno sviluppo della tua poetica?
“Quando ho cominciato a scrivere il testo mi sono resa conto che la mia figura poteva essere facilmente affiancabile a quella delle ragazze, poteva diventare una metafora della loro presenza, mentre mi piaceva molto l’idea che ci fossero soltanto gli adulti e adolescenti maschi. Non so dire se nel futuro sarà ancora così, sicuramente questa volta è andata così”.
Qual è la difficoltà di lavorare con una ‘tecnologia arcaica’ come i pupazzi?
“Mi sento molto fortunata perché ho avuto un grande maestro, che mi ha tenuto a bottega da lui a Bercellona e mi ha insegnato dei segreti per farmeli amici, Joan Baixas, uno dei registi di teatro visuale più famosi. Da un lato c’è la sapienza che lui mi ha passato, dall’altro una difficoltà che è anche una magia per il fatto che io non sono capace di costruirli e che prima li immagino e poi devo cercare di spiegare a chi lavora con me cosa ho in testa. Le difficoltà sono altre, non dipendono da loro, ma dal fatto che in Italia si dà per scontato che se ci sono dei pupazzi lo spettacolo in questione è per bambini e invece non è proprio così scontato. I teatri di prosa, le stagioni classiche, sono veramente poco abituate a questa forma di teatro”.
I pupazzi non hanno momenti negativi, una volta che sono costruiti in un modo sono in quel modo per sempre?
“Hanno altre bizze, si rompono, si ingrippano, hanno bisogno di grande manutenzione. Hanno una natura delicata, ma molto disponibile”.
Si può definire “impegnato” il tuo approccio alla scena?
“Condivido il termine impegno, per me ha una connotazione molto positiva. Credo che sul termine “teatro impegnato” ci siano dei pregiudizi. Le storie che ho scelto mi sembra possano dare degli stimoli utili per cambiare le cose che abbiamo intorno. L’altra particolarità che hanno è che, pur essendo dense di contenuti e ideali, sono piene di ironia. Ondina Peteani ci racconta di come le donne trovassero il modo di usare gli stereotipi femminili per farsi beffe dei fascisti e di come l’impegno di cambiare il mondo e il futuro desse loro un entusiasmo, una vitalità che non avevano mai provato prima. La storia delle clarisse di Udine è veramente l’apoteosi dell’ironia, nei verbali del processo è descritto come l’Inquisitore perdesse le staffe perché si rendeva perfettamente conto che le monache lo stavano prendendo per i fondelli. L’ironia è l’arma migliore per affrontare tematiche spinose”.
È difficile essere donna e artista?
“Il mondo del teatro vive le stesse dinamiche del resto del nostro Paese. Trovo che ci siano delle difficoltà a livello pratico, il mio lavoro non prevede grandi tutele nel caso scegliessi la maternità. La maggior parte del comparto tecnico in Italia è maschile. Nel momento in cui arrivo io, mingherlina, femmina e comincio a chiedere determinate cose rispetto all’allestimento, mi è capitato più volte di sentirmi apostrofare: “Beh, mica stupida la ragazza”. A un uomo non sarebbe mai successo”.
Infatti ti sei creata una comunità creativa di donne che ti aiutano …
“Le realizzazioni scenografiche dei miei spettacoli sono opera di donne, oltre a Paola Villani, Belinda De Vito per È bello vivere liberi! ed Elisabetta Ferrandino per La semplicità ingannata. Centrale Fies, la mia casa lavorativa a Dro, è diretta da una donna, Barbara Boninsegna, una femminista anni ’60: è diventata mamma presto e infatti al Festival annuale che organizzano in estate, Drodesera, c’è un servizio di babysitting per artisti e spettatori unico nel suo genere. Questo luogo l’ho scelto perché mi riconosco nella persona che lo dirige che è sensibile alle questioni di genere”.
Come vuoi che esca il pubblico dai tuoi spettacoli?
“La cosa bella è riuscire a trasmettere l’effetto che fanno su di me le storie che racconto quando le scopro: la necessità di fare qualcosa per cambiare quello che ho intorno. Voglio trasmettere una carica, un entusiasmo concreto. Se il mondo non è quello che veramente desideriamo dobbiamo avere la convinzione di poterlo cambiare. Le storie che racconto, essendo vere, accadute realmente, hanno la forza di un’utopia realizzabile”.
Qui tutte le date della tournée di Sorry, boys e degli altri spettacoli in repertorio.
Sorry, boys
Dialoghi sulla mascolinità per attrice e teste mozze.
di e con Marta Cuscunà
progettazione e realizzazione teste mozze Paola Villani
assistenza alla regia Marco Rogante
disegno luci Claudio “Poldo” Parrino
disegno del suono Alessandro Sdrigotti
animazioni grafiche Andrea Pizzalis
costume di scena Andrea Ravieli
co-produzione Centrale Fies
con il contributo finanziario di Provincia Autonoma di Trento, Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo
con il sostegno di Operaestate Festival, Centro Servizi Culturali Santa Chiara, Comune di San Vito al Tagliamento Assessorato ai beni e alle attività culturali, Ente Regionale Teatrale del Friuli Venezia Giulia
distribuzione Laura Marinelli
teste gentilmente concesse da Eva Fontana, Ornela Marcon, Anna Quinz, Monica Akihary, Giacomo Raffaelli, Jacopo Cont, Andrea Pizzalis, Christian Ferlaino, Pierpaolo Ferlaino, Filippo pippogeek Miserocchi, Filippo Bertolini, Davide Amato
Un ringraziamento a Andrea Ravieli, Lucia Leo, Roberto Segalla e alle ragazze e ai ragazzi del Gender and Sexuality Group del Collegio del Mondo Unito dell’Adriatico
Marta Cuscunà fa parte del progetto Fies Factory