GIULIA MURONI | È un’operazione di resistenza quella di Marta Cuscunà. Si tratta di far ri-esistere una scheggia dalla storia delle donne e raccontarla in veste di soggetto, dando luce rinnovata e nuova esistenza in virtù di significati provenienti dal presente.
Seconda parte del progetto “Resistenze femminili in Italia”, “La semplicità ingannata”, visto alla rassegna Schegge a Torino, ha come argomento l’agire delle monache dell’ordine delle clarisse in un convento di Udine nel XVI secolo, le quali trasformano la loro prigione religiosa in una woolfiana “stanza tutta per sé”, una libera fucina intellettuale dove mettere a confronto nozioni e mettere in discussione dogmi. Prendendo le mosse da un fatto realmente accaduto e storicamente perlopiù negletto, se non addirittura occultato da una certa perdurante tradizione di storia della Chiesa, Marta Cuscunà dirige e recita la vicenda del gruppo di monache.
La scena si apre su Cuscunà che, ornata di velo da sposa, emerge dall’oscurità sulle note di una marcia nuziale rock. Dopo un breve intervento sulla libertà delle cortigiane e su quel morbo sociale che affligge le donne nel Cinquecento e in vesti mutate tuttora – nel tema della libertà come concessione paternalistica maschile – vengono raccontate le manovre educative per indirizzare le bambine a divenir “sposine di Cristo”. È un’asta, metafora del matrimonio concordato dalle famiglie sulla base della dote, quella in cui le giovani donne vengono catalogate per caratteristiche di docilità e bella presenza. La ragazzina dal carattere più irrequieto viene però indirizzata al convento. Appollaiate su un trespolo a lato del palco alcune bambole vestite da monache diverranno, attraverso le mani e la voce di Cuscunà, le clarisse del convento di Udine le quali, riuscendo a variare di segno il dato della clausura, hanno trasformato il convento in uno spazio di libertà. La contravvenzione ai dettami ecclesiastici subisce un processo giudiziario che però si conclude nel migliore dei modi per le clarisse che vissero ancora per un po’ felici e contente, al chiuso del monastero.
È un teatro di narrazione, un teatro che vuole documentare e farsi testimone, raccontare una storia in cui non è facile imbattersi. Perlopiù nella forma di narratore extradiegetico, Cuscunà sembra confrontarsi con un pubblico bambino, lo accompagna con parole lievi e lo diverte con espedienti immediati. Qualche inserto musicale conosciuto, una bestemmia velata, e tutto uno scorrere di voci, perlopiù caratterizzate, buffe, da cartone animato, nate dal solo timbro di Cuscunà sembrano in effetti riscuotere successo nella platea che, ben contenta di essere accompagnata in questo racconto a lieto fine, reagisce con entusiasmo.
A Cuscunà si deve riconoscere il merito di essersi confrontata con una tematica non facile e con il nobile obiettivo di riportare alla luce, attraverso una storia messa a tacere, un exemplum di presa di coscienza femminile. Le femministe ragionano e investono da anni sulla costruzione di una narrazione costruita dalle donne, nel tentativo di non doversi sempre fare spazio in un mondo pensato da e per gli uomini, ma piuttosto costruendo da sé il proprio orizzonte simbolico e archetipico di riferimento, da cui quello materiale.
Procedere in una operazione di questo tipo richiede però una radicalità che sembra latitare nel lavoro di Cuscunà. La narrazione pare incagliarsi nel facile equivoco di una dicotomia buoni/cattivi, dal gusto vagamente quota rosa, per tratteggiare un racconto edificante, consolatorio e a tratti retorico che non rende del tutto giustizia a una stratificazione storica che mostra il segno colpevole di una subalternità femminile nei rapporti di potere, che si protrae in modo più subdolo ai giorni nostri. Le scelte estetiche sembrano riflettere il medesimo atteggiamento un po’ accomodante, risentendo così dell’assenza di un registro schiettamente graffiante, di un affondo corrosivo nella riproposizione contemporanea del passato.