GIULIA TELLI | Assistere ad Anelante, nuova creazione del duo Rezza/Mastrella, in scena a Milano al Teatro Elfo Puccini fino al 28 febbraio, è una sfida per l’intelligenza e la morale dello spettatore.
In scena non il solo e non di rado solipsista Rezza, ma anche l’affezionato Ivan Bellavista (già presente in 7, 14, 21, 28 e in Fratto X) e “tre performer”, attori che non necessitano di entrare in alcun ruolo: il loro compito è agire lo spazio invaso dal corpo attraverso gesti spezzati, energia fisica, potenza vocale.
La forza espressiva che scaturisce dalla scena è data da un sofisticato ingranaggio alimentato dall’energia centripeta e centrifuga del corpo dell’attore biomeccanico, che si fa mezzo di creazione artistica e strumento di comunicazione. Gli attori corrono, saltano stando seduti su delle sedie di plastica bianca emettendo, all’unisono, suoni disarticolati, sudano, fingono pratiche di autoerotismo e simulano atti sessuali di gruppo. I loro corpi, scomposti, ammassati, sommati e sottratti in un susseguirsi di quadri scenici costruiscono situazioni: dai grandi della terra che si riuniscono per decidere le sorti del mondo: G8, G13, G12, G20, a una danza quanto mai plastica e sorprendentemente espressiva interpretata dai rispettivi fondoschiena.
L’atmosfera che si respira è quella della farsa carnevalesca, dove ogni ordine naturale e morale è sovvertito e il rovesciamento della prospettiva diventa strumento di acquisizione di una verità nuova o diversa, sancita attraverso proclami di caustica ironia sociale che sfocia nella surrealta’: “La pensione è la vera tragedia di fronte alla morte: stai a morire e ti stai a preoccupare degli spicci”; “Freud ha costruito un impero sulla stanchezza degli altri. Con un buon digestivo lo avremmo messo a tacere”; “La casa è il vero focolaio delle tragedie. La casa è la prima causa di mortalità nei paesi sviluppati”; e così via fino a tornare sull’amato culo, così visivamente presente e di cui viene delineata una similitudine con la divinità, in questo caso apparentemente non nell’accezione di culo come parte anatomica, ma come sinonimo di fortuna: “Dio è un surrogato del culo. In mancanza di uno ti attacchi all’altro. Meglio Dio. E’ una questione di igiene”.
Ma il gioco è proprio stare al bordo dell’equivoco, superare il limite del convenzionale e fingere poi di non averlo fatto, lasciando lo spettatore in una sorta di terra di nessuno. Tutto è concesso in questo vortice di razionalità caotica: sculacciate schioppettanti inflitte con spade di gomma, danze tribali ritmate da un canto corale fatto a cappella, coreografie di corpi che, in un serratissimo gioco di scambi e travestimenti, entrano, escono e scompaiono dietro le finestrelle di un teatrino scomponibile di ascendenza astratta quanto all’accostamento espressivo dei colori, rosso, bianco, nero, arancione e di gusto anarco-futurista per quanto invece pertiene la scomposizione delle linee, lontane dal qualsivoglia rigorismo della forma.
Una scenografia, quella creata da Flavia Mastrella, che permette agli stralunati personaggi di abitarla dando volume alla piatta bidimensionalità, cui conferisce comunque spessore il pavimento sghembo a strisce bianche e nere che specularmente si riflette nei rettangoli a scacchiera che scendono dal soffitto.
La luce attraversa questi volumi trasversalmente per poi lasciare spazio al buio della notte, che genera flussi di coscienza che si attorcigliano su se stessi in un dettato automatico del pensiero. Il dramma in scena pare a tratti essere quello di un uomo che ce la mette tutta per ascoltare gli altri, poi capisce che è meglio ascoltare se stesso, anche mentre dorme.
Il sonno della ragione genera mostri, ma se la ragione soffre di insonnia, i mostri vengono guardati in faccia per essere derisi e “depotenziati”.
Il verso libero imperante ci conduce in una straniante allucinazione distopica quanto mai attuale, che restituisce una lucida parodia della società che sproloquia senza ascoltare, riempiendosi di paroloni a volte incomprensibili, o formule algebriche, di cui qui vengono scardinati abilmente postulati ed enunciati. Non vi sono argini di struttura né di trama, non c’è uno svolgimento lineare ma si salta in maniera schizofrenogena da un tema all’altro: la relazione con il potere, con l’onirico, con le irrefrenabili pulsioni sessuali, con il proprio inconscio, con le figure parentali che, giudicate colpevoli e assenti nell’assolo finale, vengono idealmente “giustiziate”.
Parole sciorinate, rimescolate, ingurgitate, masticate, digerite e risputate sullo spettatore da questo mostro a più teste, corpo unico scisso per la prima volta in una pluralità di voci e corpi che lo completano, quietandone forse l’ego eccentrico e ipertrofico, anche se Antonio Rezza, dadaista della scena, “E’” e rimane l’indiscusso protagonista, mentre tutti gli altri, che con lui mischiano il sudore disputandosi la scena, “ci fanno” ma non “sono”.
Il corto circuito avviene però nella mente dello spettatore le cui sinapsi stordite quasi alla fine non ricordano più nulla della mitragliata di parole che lo ha crivellato: un delirio lucido che apparentemente sembra non avere né capo né coda, dove si affastellano immagini, ricordi d’infanzia, pensieri sconnessi e dove l’arma pungente dell’ironia, del paradosso, dell’iperbole e della provocazione abbatte ogni barriera. Qualsiasi soglia del pudore è violata e dissacrata.
Ciò che resta è una suggestione astratta, un’atmosfera che non può essere ritagliata in una forma precisa ma la cui sostanza lascia un’impronta invisibile, con un peso specifico originale.