RENZO FRANCABANDERA | Si levano le volute di fumo. Sul tavolo una bottiglia di vino, un’ampolla di vetro con delle noci, ed un coltello conficcato nel damascato rosso che copre la lunga tavolata. Macbeth sta aspettando la notizia dell’uccisione dei figli di Mac Duff. Sullo sfondo già si vedono piccole piante, forse il bosco di Birnan che avanza verso Dunsinane? No, sono vasetti di salvia, rosmarino e timo, poggiati su una mensola d’acciaio, mentre sul tavolo due fornelli elettrici mandano in ebollizione una padella ed una pentola, e sullo sfondo, ad una sorta di attaccapanni riconvertito a reggimestoli da cucina, sono appesi drappi, coltelli e mannaie. Dietro il tavolo lui, Macbeth. O magari è solo Luca Radaelli vestito da chef, che tuffandosi in un vario ma evocativo set culinario racconta la vicenda del crudele usurpatore del regno di Duncan.
La versione da cucina del classico shakespeariano è un’idea suggestiva e ben riuscita di Paola Manfredi, che vede in scena Luca Radaelli accompagnato da Maurizio Aliffi ad eseguire una partitura musicale dal vivo con la chitarra.
Nelle belle suggestioni quasi pittoriche che le luci di Matteo Binda e Graziano Venturuzzo fanno sbalzare dal buio del palco, la regia di Paola Manfredi, pensatrice della scena sempre molto attenta al rigore della costruzione di un ambiente mentale coerente, sviluppa per rigorose immagini una rilettura del classico dove il gesto è costantemente in bilico fra teatralità quasi meccanica e simbolo ed evocazione pittorica.
Questa tensione, forni elettrici a parte, finisce davvero per avere le caratteristiche del quadro vivente, con esplicite citazioni caravaggesche, dalle nature morte alla decollazione di Matteo, ma si potrebbe dire che è un’atmosfera modernamente seicentesca a leggersi in scena. Nessun simbolo è fuori posto, nessun movimento casuale. Tutto rimanda, tutto evoca senza didascalia. Le musiche ricordano ed oscillano fra antichità e modernità e Scarborough fair, la ballad di Simon and Garfunkel, ritorna a dialogare con gli altri segni scenici, con gli odori sulla mensola.
Ma questa è la caratteristica principale di questo allestimento, in cui la regia guida di colpo l’occhio su piccoli dettagli mentre il quadro rimane in perenne movimento, e più che una tela caravaggesca pare di trovarsi dentro una sua rilettura di Bill Viola. Non c’è tuttavia esasperante lentezza, e anzi il ritmo è costantemente vivo, come il fuoco sotto le pentole, non ci sono cali di tensione. Anzi a volte si va in apprensione persino per la cipolla che rischia di attaccarsi nella padella, nell’assurdo ping pong con l’attenzione dello spettatore, che la regia porta a spasso qui e lì fra attore ed elementi in scena.
L’interpretazione di Luca Radaelli ottimamente riportato (e verrebbe da dire finalmente!) ad una dimensione autenticamente attorale, lontana dalla cifra di teatro di narrazione a cui si è dedicato negli ultimi anni, pare liberare questa energia tenuta sopita per alcuni anni, in un vorticoso seguire di parole e movimenti in cui ogni distrazione sarebbe fatale. E anche il lavoro sulla parola è pertinente e a tratti sfidante e interessante, con la filastrocca in dialetto lombardo che diventa grammelot alchemico delle streghe delle highlands che profetizzano il destino a Macbeth, in un incastro di divertente uso del popolare in scena, che vien fatto passare per parola del rito.
Manca qualcosa del classico? No, non manca niente. Quello culinario è un pretesto per abboccamenti di spettatori nostalgici di Expo o ha una sua necessità esplicitata dalla azione scenica? La risposta vira senz’altro su questa seconda ipotesi, e anzi subito si comprende come questa ambientazione sia pretesto per raccontare davvero alcune cose interessanti anche sulla possibilità di fare teatro povero ma intelligente, con la parola come con gli oggetti, come l’interessantissimo ricorso alla barbabietola rossa per macchiare le mani di sangue criminale in modo quasi indelebile, e poi il goffo tentativo di coprire il crimine indossando chirurgici guanti bianchi.
Al di là dell’ovvio rodaggio necessario, visto che siamo alle primissime repliche di questa pièce, la creazione di Paola Manfredi è un esito felice, interessante, che trova nella traduzione del testo del Bardo fatta da Radaelli un desco adatto a parlare della finzione, umana ma anche teatrale, come vuole far intendere l’uscita finale dei due attori dal momento recitativo: un banchetto povero, che fa tornare alla memoria il recente Still life di Dimitris Papaioannou presentato l’anno passato al Crt di Milano, in cui il coreografo greco e i suoi ballerini ad un certo punto dello spettacolo uscivano da una recita sofisticata e formale per sedere al tavolo e condividere una cena frugale. Lì, veniva portato un tavolo in sala e il pubblico sentiva l’odore del cetriolo e della rucola che veniva tagliuzzata; qui si ha solo un accenno: un bicchiere di vino riempito a metà con i piatti che restano vuoti perché in realtà la carne non è ancora pronta e i due interpreti, Radaelli ed Aliffi, che si scambiano qualche battuta informale, come al bar, mentre le luci si abbassano. Riadattando il brocardo amletico, verrebbe da dire: se c’è del marcio in Danimarca, in questa Scozia c’è un bel profumo di teatro!
Macbeth banquet
da William Shakespeare
idea scenica e traduzione Luca Radaelli
con Luca Radaelli e Maurizio Aliffi alla chitarra
luci e tecnica Matteo Binda e Graziano Venturuzzo
regia Paola Manfredi
aiuto regia Dario Villa
produzione Teatro Invito