MATTEO BRIGHENTI | Silvia Frasson è la voce gentile di una passione combattiva. “Questo mestiere – mi rivela d’un fiato – è il mio modo di essere al mondo, fare politica, stare nella società, di conseguenza parla tanto di me”. Essere donna e fare l’attrice sono gli occhi di un amore che si rinnova ogni sera. “Metto in gioco tutto – continua – e metto in crisi tutto. Il mio teatro dice a chi ascolta: fatevi avanti, guardate da vicino. Lo sforzo è totalizzante, spero che lo apprezzino”. Si rivolge alla visionaria Giovanna D’Arco, la sanguinaria Caterina de’ Medici, santa Mustiola, la verace Sara Pecorari, l’irrealizzata Claudia, specchi di conflitti e grandi contrasti interiori a cui l’artista originaria di Chiusi, in provincia di Siena, offre un riscatto, non tanto sociale, quanto emotivo.
Silvia Frasson è una ‘narratrice immaginifica’, scrive le parole e il corpo dei personaggi anche quando non sono i suoi, ma di altre voci, altri inchiostri. La narrazione è il treno su cui è salita, l’interpretazione è un panorama che guarda dal finestrino. Un doppio scavo, quasi, raccontare raccontandosi per poter essere compresa, capita e diventare perfino un esempio. “Chiunque scrive – mi dice con convinzione – scrive di sé. Scrivo di getto e solo una volta che lo spettacolo è finito capisco cosa sto raccontando di me. La cosa più sorprendente è la risposta del pubblico, vedere che il mio modo di guardare e sentire colpisce la sensibilità degli altri”.
L’incontro con la narrazione è avvenuto per caso agli inizi del 2000 al Teatro Verdi di Milano quando è ancora allieva della Civica Scuola di Teatro ‘Paolo Grassi’. Una sera il collega di corso Damiano Michieletto, oggi riconosciuto uno degli eredi di Luca Ronconi, la porta ad assistere a Passione con Laura Curino. “Mai stata a niente del genere prima di allora – ricorda – un’attrice sola in scena, però vidi mondi, caratteri, grandi eventi. Cominciai a piangere e continuai anche quando Damiano me la presentò: sembrava l’incontro tra Bernadette e la Madonna a Lourdes”.
Si diploma nel 2001 con Santa Giovanna dell’immaginazione, il primo spettacolo di narrazione, tuttora in repertorio, in cui paragona la fede della Pulzella d’Orléans alla sua vocazione per il teatro. Il caso, dunque, va lasciato succedere. Per farlo, però, bisogna mettersi in cammino. “Ci sono arrivata seguendo l’istinto – confessa – che mi portava verso una cosa di cui non sapevo niente di niente. Mi c’è voluto un po’ per capire di cosa si parlava quando si parlava di teatro”. Le prime recite al liceo classico nella vicina Montepulciano, poi l’iscrizione all’Università di Perugia, lasciata dopo tre mesi, perché le materie di studio non la interessano.
Insieme a quattro amici allora gira l’Italia e va a fare provini in tutte le più importanti scuole per attori. Prova e riprova, riesce a entrare alla ‘Paolo Grassi’. “Venivo da Chiusi – prosegue – quando sono arrivata a Milano ero confusa e sperduta, come in quella storia del topolino di campagna che arriva in città. Comunque, ero sempre felice, di una felicità estrema”.
La scuola era uno spazio di libertà, protetto, il sessismo del mondo del lavoro era lo scoglio di un mare che restava fuori della porta. “È molto difficile essere donna e attrice – conclude amara – nell’uomo conta prima la bravura, nella donna no. Un regista mi ha detto chiaramente che se mi vestissi e comportassi in un certo modo lavorerei di più”.
Ma Silvia Frasson è decisa a non indietreggiare dalla passione che ha nel teatro come luogo di avvicinamento a chi più di tutti non conosciamo, noi stessi. Un credo che la aiuta a capire e tenere la giusta distanza da ciò che avviene dentro e anche intorno a sé. A essere attrice senza rinunciare a essere donna.