ELENA SCOLARI | Niente è più affascinante di un rivoluzionario. E l’allure dei francesi, girondini, giacobini e sanculotti aggiunge charme ad uno dei periodi più determinanti per la Storia dell’occidente.
Morte di Danton di Georg Büchner è pubblicato nel 1835, rimarrà a lungo irrappresentato ma l’opera rifulge di fulgore ancora oggi. È un testo profondo, riflessivo, filosofico, scritto benissimo e nel quale batte un pensiero infinitamente intelligente non solo sui fatti della Rivoluzione ma sull’uomo, sulla morte, sulla morale, su Dio. E bene ha fatto Mario Martone a scegliere di metterlo in scena in questi anni di così scarsa abitudine all’analisi seria e approfondita di ciò che accade nel mondo.
“Morte a chi sa leggere e scrivere!“, si grida contro gli aristocratici. Non suona così anacronistico.
La lucidità delle parole pronunciate dai rivoluzionari (nella bella traduzione di Anita Raja) fa impallidire qualunque discorso politico odierno, Robespierre avrebbe convinto anche me, sì.
Se Robespierre fosse stato Paolo Pierobon: interprete eccellente, vigoroso, sicuro. Più di Giuseppe Battiston, stavolta, che seppur bravo, appare meno calzante e veste forse di troppa indolenza il suo Danton. Tra gli altri attori (in tutto 29!) citiamo Denis Fasolo, Massimiliano Speziani, Roberto De Francesco e Alfonso Santagata, seguaci di Danton, tutti di significativa intensità. Paolo Graziosi ha la bella parte dell’intellettuale inglese Thomas Paine che cita la tesi sull’esistenza di Dio rielaborata dall’Ethica more geometrico demonstrata di Spinoza. Peccato per un evidente incidente di memoria, poi recuperato.
L’impianto dello spettacolo è piuttosto imponente, il Teatro Stabile di Torino non ha badato a spese, a partire dal numero di interpreti, tutti con costumi curatissimi. Le scene sono ricche e ben ammobiliate, il Tribunale della Rivoluzione ricostruito con dovizia. Salottini lussuriosi, baldacchini vellutati, tavoli da gioco… Ma cosa ne è di questo esplicito dispiego di mezzi e persone? L’apparato non giustifica appieno il risultato. Soprattutto i 29 attori sono diretti in modo mai veramente corale, sono sottoutilizzati in un lavoro che dovrebbe, molto più visibilmente, rispecchiare il ruolo che le masse e la loro spinta – anche distruttrice – ha avuto negli avvenimenti. Il furore del popolo che rischia di uccidere se stesso non si sente, se non nelle orazioni dei singoli. Sfugge allora il senso della trentina che non crea mai un insieme massiccio. Si arriva, per esempio, all’esecuzione finale di Danton con uno sparuto gruppetto di 5/6 sole attrici ad assistervi, come fosse stata un evento poco seguito dai citoyens. Parbleu!
Purtroppo la folla è principalmente presente nei suoni, un brusio prepotente dalle casse, che almeno in balconata, ha impedito di sentire la tirata di Danton al processo. In un’operazione di questo tipo ci sembra di poter dire che una maggior cura negli aspetti tecnici, quando si va in tournée in teatri che non sono il luogo di nascita dello spettacolo, sarebbe doverosa.
L’idea registica più bella è la moltiplicazione dei sipari, quattro diversi piani che aprono e chiudono le scene e separano tempi e luoghi in modo fisico e di grande effetto. Particolarmente riuscito è il momento dell’incubo di Danton che sogna il terribile Settembre 1793 nel quale appoggiò il massacro di 1.600 prigionieri realisti e clericali. Qui i sipari scendono uno dopo l’altro col suono secco della ghigliottina, in una sequenza che si abbatte crudelmente.
Iaia Forte è Julie, la moglie, che qui lo consola. Per quanto si possa fare date le patibolari circostanze.
Decisamente meno interessante è invece la ‘trovata’ di usare la platea come fosse il pubblico del Tribunale e l’aggirarsi di alcuni personaggi tra le file di spettatori, tentativo un po’ frusto di animare l’ambiente. Così come i popolani che recitano in napoletano risultano un cliché poco fantasioso, anche se tutti sono disinvolti nel loro dover apparire grossiers.
La Marsigliese? C’è, c’è. E viene accennata sommessamente, con toni niente affatto trionfali, a fondo scena, da un fronte di cittadini che cita esplicitamente il Quarto Stato. E quel canto timido, non conquistatore, allude forse all’altissimo costo pagato per la Libertà.
I ruoli femminili sono pochi e non centrali, per lo più giovinette libertine o colorite donne del popolo. Segnaliamo però Julie e Lucile, le mogli di Danton e Desmoulins, entrambe amorevoli e fiere, compagne coraggiose di uomini non comodi.
Un aspetto forte della bellezza di Danton personaggio è nel suo cupo desiderio di morte, per se stesso. Dopo aver fatto rotolare tante teste reali giunge ad un disgusto che prima si traduce in una posizione moderata che vorrebbe porre fine alla Rivoluzione e alla violenza, poi in una sconfitta disaffezione alla vita (…non caleranno mai il silenzio e il buio in modo da non sentire più e da non rivedere più le nostre ributtanti reciproche colpe?).
Ha combattuto, senza risparmiarsi, ma ora guarda al Nulla come l’unica tranquillità.
Robespierre/Pierobon è invece un grandioso giustiziere: il fuoco del Terrore, intransigente, incorruttibile e virtuoso, costantemente contrapposto all’antagonista Danton, licenzioso e più incline alla trattativa, che lo accusa di essere “di una rettitudine che fa indignare“. Robespierre dice “punire gli oppressori dell’umanità è clemenza, perdonarli è barbarie“. Capite che con un tipo così c’era poco da discutere. Vedrà la morte di Danton ma finirà sotto le mani del boia poco dopo di lui.
Lo spettacolo si chiude con la scena occupata solo da una ghigliottina che oscilla dall’alto, prima del buio e dell’ultimo sipario.
Un bel finale? Da scommetterci la testa.
di Georg Büchner
traduzione Anita Raja
regia e scene Mario Martone
con Giuseppe Battiston, Fausto Cabra, Giovanni Calcagno, Michelangelo Dalisi, Roberto De Francesco, Francesco Di Leva, Pietro Faiella, Denis Fasolo, Gianluigi Fogacci, Iaia Forte, Paolo Graziosi, Ernesto Mahieux, Carmine Paternoster, Irene Petris, Paolo Pierobon, Mario Pirrello, Alfonso Santagata, Massimiliano Speziani, Luciana Zazzera, Roberto Zibetti, Matteo Baiardi, Vittorio Camarota, Christian Di Filippo, Claudia Gambino, Giusy Emanuela Iannone, Camilla Nigro, Gloria Restuccia, Marcello Spinetta, Beatrice Vecchione
costumi Ursula Patzak
luci Pasquale Mari
suono Hubert Westkemper
registi collaboratori Alfonso Santagata e Paola Rota
scenografo collaboratore Gianni Murru
si ringrazia per la collaborazione Bruno De Franceschi
produzione Teatro Stabile di Torino -Teatro Nazionale
visto al Teatro Strehler di Milano
I sipari sono sei.
non ho trovato così bravi gli attori
Ho detto molto bravo solo di Pierobon. Fine.