GIULIA TELLI | Su uno spazio nudo abitato soltanto dai due corpi degli attori si fondono il testo di Heiner Müller Amletmachine, iperbole del disfacimento, e il classico Amleto di William Shakespeare.

La regia asettica e chirugica di Pujadevi (Elisa Lepore) con polso michelangiolesco toglie il superfluo e scolpisce sulla scena l’essenziale, riducendo a uno pseudo dialogo tra Hamlet (interpretato dal bravo Luca Pasquinelli) und l’irriverente Ophelia (interpretata con eleganza da Eleonora Cecconi) l’intera tragedia shakespeariana.

Gli attori sono già sulla scena quando il pubblico inizia a prendere posto in sala.

52557a38-4b92-440b-a75a-da6765bb733c.jpgUn Amleto rasato, scalzo e a torso nudo sotto una giacca nera e inamidata, seduto su una sedia con un cappio al collo, con gli occhi pesti di chi non dorme, o forse fa soltanto brutti sogni, di chi “non vuole più vivere, morire, ma stare nel nulla”. Lo sguardo perso a fissare il vuoto di chi si dibatte nel dramma dell’ambivalenza dell’essere o non essere, del non voler più morire né voler più uccidere.

Anima inquieta e speculare ritagliata in un fascio di luce, l’alter ego femminile di Amleto rappresenta tutto quello che può significare una donna: da Eva fino a Ophelia e oltre, passando per il mito.  In una mano tiene una mela rossa, morsicata, che contrasta con il nero dei costumi (affidati all’estro di Marina Rosa Papagni), del trucco pesante che cerchia gli occhi dei due attori  e del nero contenitore che è la scena stessa, illuminata a tratti da coni di luce, freddi occhi di bue nei quali i due attori si ritagliano la scena rubandosi vicendevolmente la parola. Ophelia dal cuore spezzato ma che ha appeso al chiodo l’abito bianco della verginità per mostrarsi nella sua aggressiva sensualità: capelli sciolti, tacchi a spillo e guepière. Ophelia che da ieri “ha smesso di uccidersi e non calpesta più cio che è”.

Ophelia che lecca la mela prima di porgerla ad Amleto, mentre in lontananza si ode il rumore di tuoni che squarciano il cielo, del crepitio dell’ acqua piovana che furtivamente sgorga in qualche condotto, di lupi che ululano e cani che latrano. Sembra di sentirla nelle narici quell’atmosfera cupa, umida e desolante della Danimarca. Lingue di fumo bianco si condensano sulla scena restituendo la suggestione di quella stessa nebbia fitta e pungente da cui emerse, nell’omonimo dramma, lo spettro del Re di Danimarca.

Al tempo stesso però, quella stessa atmosfera di nebbia e foresta notturna popolata da lupi ululanti riporta a ben altro castello di gusto espressionista: quello in Transilvania dell’inquietante e (trans)sensuale Frank’n’furter, nella trasposizione cinematografica del Rocky Horror Picture show del 1973 di Richard O’Brien. Non ci si stupirebbe se Ophelia trasformasse la sua partitura in slow motion, fatta alla spalle di Amleto mentre lui decanta il celebre monologo shakespeariano, nel ballo del Time Warp, ballato nel film dai transilvaniani. Non stona quindi neppure Amleto che strizza i bicipiti tatuati in un abitino nero perché, fedelmente al testo di Müller, alla domanda di Ophelia “vuoi mangiarmi il cuore?” le risponde “voglio essere una donna”, e Ophelia che in uno scambio di ruolo e identità indossa la di lui giacca.
Gli attori escono dai ruoli che sono chiamati a interpretare sporcandoli così di modernità, per entrare nella vita vera di uomini che però in questo mondo si scoprono più freddi delle macchine, attanagliati da una noia esibita e ostentata.

Amleto e Ophelia si muovono senza sosta in questo spazio-non spazio, che ben riflette il loro inquieto male di vivere, due robot che stanno ai margini di questo mondo non-mondo, nel quale entrano ed escono continuamente (anche sulla scena, rompendo la quarta parete, i due apostrofano gli spettatori interrogandoli senza pietà: “che cazzo vi aspettavate di trovare questa sera a teatro”?) per mostrare il delirio dell’uomo moderno perso in una routine meccanica che soffoca la vita, fin dal suo nascere.

L’Amleto di Müller rappresenta l’emblema dell’intellettuale moderno e i suoi paradossi, è l’anti-eroe per eccellenza, nauseato dal capitalismo che non ha più voglia di porre domande a se stesso, ma inizia a insinuare negli altri, nello spettatore stesso, il dubbio sulla propria inconsistente esistenza.
Non c’è sincronia apparente tra il dire e il fare: anime ormai vuote che si autoscherniscono ballando la Macarena, tormentone anni ’90, sulle note di un coro da stadio. Così come Adamo ed Eva avevano disperso i semi della procreazione, Ophelia e Amleto, complici e amanti, sterilizzano il terreno con la noia. E sempre per noia Ophelia alimenta il proprio ego scattandosi selfie, per riempire il vuoto tra una chat e l’altra, espressione di un disagio, di un’inadeguatezza, che non hanno forma né colore ma indolenti ci restano appiccicati addosso.

Quella di Müller, da cui è tratta la maggior parte del testo drammaturgico, è un’operazione al limite del virtuosismo linguistico, dove si assiste alla deflagrazione di qualsivoglia struttura sintattica attraverso rotture lessicali e ritmiche, contaminazioni di altri idiomi (inglese e tedesco) e al tempo stesso alla ricostituzione di un senso altro, più profondo, dove “l’epifania della crudeltà non prevede narrazione ma (deton)azione”.

L’uomo moderno non è altro che un fantoccio, un burattino, che s’agita diretto dalle mani del potere, assorbito e fatto schiavo dalla stessa tecnologia di cui si sente l’indiscusso padrone, scisso tra l’impossibilità di modificare l’esistente e il desiderio di trasformarsi in macchina.

HAMLET UND OPHELIA BEFREIT
Progetto e regia di Pūjādevī
con Eleonora Cecconi, Luca Pasquinelli
foto di scena Cristiano Mugetti
costumi Marina Rosa Papagni
riprese video Filippo Lorenzi, Francesco Marullo
organizzazione Federica Picciolo