MATTEO BRIGHENTI | In Italia ci sono ufficialmente 414.158 slot machine, circa una ogni 144 abitanti, neonati compresi. Il più vasto mercato in Europa, e uno dei più grandi al mondo, ha prodotto un milione e trecentomila “giocatori problematici” che si svegliano la mattina e vanno a dormire la sera con un unico pensiero, fisso in testa: giocare e giocarsi tutto.
Slot Machine di Marco Martinelli è la discesa nel ‘sottosuolo’ di uno di loro, Doriano, figlio di contadini, che per togliersi di dosso il puzzo della terra – le sue radici – sceglie prima l’azzardo delle scommesse ai cavalli e poi quello delle macchine mangiasoldi. Un vortice, una spirale, un gorgo di frustrazione ed esaltazione che Alessandro Argnani, da solo in scena, restituisce con quieta e insieme violenta arrendevolezza. Un labirinto vorticoso e terrorizzante che è l’opposto della rupe che innalza, del monte Olimpo la cui ascesa conduce alla gloria: qui la redenzione non è da meno della fortuna, una povera illusione.
Lo spettacolo, ideato da Marco Martinelli ed Ermanna Montanari, prodotto dal Teatro delle Albe – Ravenna Teatro in collaborazione con Olinda, è un soliloquio dalla fossa, come recita il sottotitolo. Quella terra che Doriano aveva sempre rifuggito ora, per contrappasso della sua scelta di vita, è tutta intorno a lui. Slot Machine comincia con un lamento nel buio, un oscuro grammelot che mangia se stesso, il fiato e i suoni, accompagnato da una musica tra Twin Peaks e un film di Sorrentino. Una pila illumina un volto che ride isterico e poi due piedi scalzi che scappano frenetici: il giocatore di Argnani cerca una via di fuga dagli strozzini, un’allucinazione della mente, com’è il gioco, com’è l’intero spazio scenico. Arriva in proscenio, a sinistra, dove il passo è fermato da un piccolo bosco di alberi bassi, di plastica, abeti di un Natale di morte su cui l’attore rovescia della terra che ha in tasca. Il teatro ha la forza di mostrare, con la lingua dei segni della rappresentazione, il prima nel dopo e il fuori nel dentro: ciò che è avvenuto torna a succedere nel momento in cui lo si ripete, lui ricopre di terra gli alberi e, per tramite loro, seppellisce anche se stesso.
Altrettanti alberi si accendono in altri tre punti del palcoscenico a tracciare gli assi cardinali della bussola della ragione persa da Doriano, una finta foresta di Dunsinane che muove contro questo Macbeth di provincia accecato dal potere del gioco. In mezzo, su un tavolo da obitorio, Argnani, in gessato e camicia azzurra, è deposto come il Cristo morto di Mantegna. Si dibatte, si divincola tra gli spasimi delle voci che lo inseguono, gli altri, la società, che gli dà dello “sfigato”, e l’Altro, il gioco, per cui è soltanto un “cretinetti”. Sopra di lui, in fondo, uno specchio deformante come quelli del luna park lo mette di fronte a come lo hanno ridotto le macchinette, un uomo che ha perso ogni barlume di umanità. La morte rivela ciò che la vita ci ha fatto diventare.
Un’immagine che Doriano non vuole vedere né può accettare: meglio, molto meglio il viso pulito che rimandano le slot machine, cioè due grandi specchi ai lati davanti al tavolo-bara con un panno verde per sudario. Argnani li usa per raccontare l’incontro con le macchinette. Diventano presto l’unico mondo possibile, abitato da “io basta”, l’incanto di un riflesso di sé nell’antico Egitto con La Tomba del Faraone, sulle spiagge della Romagna con Romagna Mia, tra le donne che ha perduto con Pin Up. Basta premere un bottone, tanto l’importante non è vincere, è giocare.
Il tema dello specchio e della prigionia del doppio, da cui non scappi perché l’Altro sei tu e di quello scontro inutile hai però bisogno per vivere, sull’esempio de I Duellanti di Conrad, è sottolineato e reso sguardo vivo e non solo mentale dal disegno luci. L’illuminazione è quasi sempre di taglio, come se Argnani si trovasse ovunque in bilico, al confine con il buio: parlare significa per lui portare alla luce (delle macchinette) l’esistente facendolo uscire dalle ombre di ciò che sa e soffre, mentre tutto il resto è solamente sfondo, avanzo di oscurità.
“Martinelli non ci consegna un giocatore – scrive Marco Dotti nella postfazione al testo di Slot Machine pubblicato da Luca Sossella editore – ci consegna a lui. E lui cosa fa? Non ci giudica, non ci parla, non ci vede. Ci saluta e se ne va, nella fossa”. Lo spettacolo, infatti, è una radiografia simbolica dei sintomi della ludopatia, dal bisogno di aumentare sempre più la posta per eccitarsi, al tornare sui propri passi per rifarsi, inseguendo le sconfitte, e ancora al mentire e commettere azioni illecite per trovare i soldi da giocare, arrivando a mettere in pericolo la famiglia, gli affetti, gli amici, il lavoro, e perfino la vita. Un dramma didattico alla Brecht per cui quello che sembra inevitabile va comunque analizzato e messo in discussione.
Il disegno didascalico complessivo stempera così nella profondità dei suoi obiettivi il girare a volte a vuoto di Alessandro Argnani, come i rulli delle slot, e il suo non affacciarsi mai compiutamente, ‘attraverso’ gli specchi, dentro la claustrofobia di una mente ossessiva. In definitiva, si tratta di uno spettacolo del dolore sostenibile, non punta a indignare, quanto a dimostrare con l’esempio negativo di Doriano che il gioco d’azzardo è una malattia (sociale), ma d’altra parte nessuno è favorevole alle macchinette, eccetto la minoranza di chi ci lucra o ne è ammalato.
Slot Machine scommette allora sul convincere chi è già convinto e così vince, vince sempre. Tale e quale a La Tomba del Faraone, Romagna Mia o Pin Up.
Slot Machine
di Marco Martinelli
ideazione Marco Martinelli, Ermanna Montanari
regia Marco Martinelli
con Alessandro Argnani
musica Cristian Carrara
spazio scenico e costumi Ermanna Montanari
luci Enrico Isola, Danilo Maniscalco
fonica Fabio Ceroni
allestimento scenico a cura della squadra tecnica del Teatro delle Albe Fabio Ceroni, Luca Fagioli, Enrico Isola, Danilo Maniscalco
produzione Teatro delle Albe – Ravenna Teatro in collaborazione con Olinda
Visto giovedì 17 marzo al Teatro Cantiere Florida, Firenze, all’intero della rassegna “Materia Prima”.