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LAURA NOVELLI | Stavolta la storia di Mastino e della sua fragilità ha un preludio e un epilogo fuori scena. Stavolta la partita di quella domenica mattina di fine anni ’80 i suoi compagni di squadra la giocano sulle note della quinta sinfonia di Mahler. Stavolta c’è forse un asprezza più malinconica, più compassata, da rintracciare nelle pieghe un po’ rudi di quel Mister fiorentino che lo tiene in panchina come fosse un Padre autoritario e anaffettivo. Stavolta “In punta di piedi”, monologo d’esordio della compagnia Biancofango ripreso nei giorni scorsi al Teatro dell’Orologio di Roma a dieci anni esatti dal debutto (era il 31 gennaio del 2006), mette insieme la forza e l’energia della prima versione con dei piccoli ma significativi nuovi intarsi drammaturgici che riflettono, per via naturale e fisiologica, la crescita artistica e umana di Francesca Macrì (autrice e regista) e Andrea Trapani (autore, regista e unico interprete), lasciando sottendere un travaso di suggestioni, emozioni, visioni da altri lavori messi in campo in quest’ultimo decennio.

E se ancora colpisce qui la sapienza di una scrittura scenica teatralissima e quanto mai vitale nella sua resistenza al letterario e alla retorica (e ancor meglio ai capricci di una lingua toscana irriducibile a mero dialetto), colpisce tanto più la precisione di una partitura fisica che, sommando in sé la sguaiata prossemica dei tifosi più accalorati e la vocazione impacciata di un’adolescenza ancora incerta e vulnerabile, sembra davvero una danza scritta sul corpo, nella voce, sul volto del bravissimo protagonista. Capace di dare consistenza reale e insieme simbolica a quattro personaggi diversi e di ballare lo struggimento dei sentimenti più nascosti e dei sogni giovanili più reconditi con estrema precisione (nonché passione) performativa.
Stessa pluralità di voci e di animi la si ritrova, d’altronde, efficacemente restituita nel rodato assolo “Fragile Show”, ultimo passo di quella “Trilogia dell’inettitudine” che, composta proprio da “In punta di piedi” e “La spallata” ed edita nel 2011 da Titivillus, scandisce l’iniziale affondo della compagnia nei temi divenuti poi nel tempo campo privilegiato e prediletto: l’inadeguatezza dell’adolescenza, la fragilità delle relazioni e dei sentimenti, il conflitto di coppia (con particolare riferimento a “Porco mondo”, nelle prossime settimane in tournée a Milano, Napoli e Palermo) e generazionale, l’assenza dei padri, la difficoltà di crescere e di non soccombere nel confronto con gli altri, con i vincenti, e – tanto più – con le proprie paure.
Quelle intime, ossessive, raggelanti, malcelate.
In fondo, il diciottenne Mastino di questa pièce, con i suoi scarpini tirati a lucido, la sua cotta sfortunata per una ragazza che non lo ricambia, la sua partita solo sognata e immaginata, la sua solitudine di giocatore e di figlio, somiglia molto ad alcuni dei ragazzi portati in scena anni fa in “Culo di gomma” (frutto di un lungo laboratorio con studenti liceali di Roma convogliato nel progetto “Perdutamente” del Teatro di Roma) e ai perdenti di quel poetico “Romeo e Giulietta, ovvero la perdita dei Padri” che Biancofango presentò al teatro India nel 2014. E anzi proprio con questo allestimento shakespeariano, “In punta di piedi” mostra un’affinità assai marcata. E’ in un campo di calcio che, con riguardoso omaggio a Pasolini, si gioca la rivalità tra Capuleti e Montecchi. Su un campo di calcio muore Mercuzio.

Su un campo di calcio si accendono le micce della tragedia che è anch’essa una tragedia di fragilità giovanile, disillusione adolescenziale, incomunicabilità con gli adulti. Gli adulti – siano essi padri o mister – scolorano dietro i passi danzanti di questi ragazzi che si sottraggono alla vita, che scelgono di sparire, immaginare un’altra possibilità, volare via. Bastano una panchina, una maglia, una linea bianca di gesso disegnata a vista. Romeo e Giulietta tentennano, inciampano prima di darsi il primo bacio così come ondeggiano prima di buttarsi di sotto mano nella mano. Mastino, da parte sua, rimane in panchina mentre il Mister legge la formazione e suggerisce la tattica di gioco, mentre l’inno della Fiorentina riempie l’aria di speranza, mentre il rivale Golgol gli soffia la ragazza. Mentre, nell’accordo disegno luci di Mirco Maria Coletti, tutti i passaggi di ruolo dell’interprete intercettano quel fiorentino materno ma impietoso che solo nel finale cede all’italiano, lingua dei pensieri: “Le mie scarpe – recita Mastino nell’epilogo – sanno più del bianco gesso della linea piuttosto che di terra. Di voi femmine ho sempre invidiato, fin dall’infanzia, la libertà di stare in punta di piedi. […] Sono una femmina alle spalle di un padre. […] Ci aggrappiamo dietro alle loro guida , forse vogliamo misurare il peso del loro sguardo che deve voltarsi per ammirarci. […] Adesso non puoi fingere di non guardarmi, padre […]”.