EDOARDO BORZI | Di fugace incanto si illumina la mente nel vedere tra mille granelli di sabbia sbocciare come un fiore selvatico dalla terra arida le membra di Yerma (Elena Arvigo), non solo donna martoriata dal desiderio di divenire madre ma seme umano germogliato in un circolo uterino di arena, che liberandosi dal cordone ombelicale si spoglia della propria maschera e brilla nella intatta nudità carnale. Sulle note tragiche dello Stabat Mater, tra volute di fumo e fendenti laterali di luci calde, si apre il sipario della sala Giancarlo Nanni del Teatro Vascello che ospita “Yerma”, spettacolo tratto dall’omonimo dramma rurale poetico di Federico García Lorca, prodotto da Andrea Schiavo | H501 insieme a La Fabbrica dell’attore – Teatro Vascello, con la regia di Gianluca Merolli e la traduzione/adattamento di Roberto Scarpetti.
Un drappo di più tappeti a far da fondale e al contempo da specchio alla pavimentazione di orditi orientali dove poggiano ai vertici quattro sedie dagli schienali oblunghi. Sul lato frontale del perimetro quadrato si animano i dialoghi duali alternati dei protagonisti con la già citata Elena Arvigo, lo sposo (Gianluca Merolli), l’amica (Giulia Maulucci), lo spasimante ( Enzo Curcurù) con Fabrizio Rippa, fuori scena, la cui funzione coreutica viene impiegata talvolta come cassa di risonanza lirica talaltra come controcanto filiale alle invocazioni di Yerma.
Il costrutto narrativo del testo teatrale di García Lorca, ambientato in una imprecisata località rurale della Spagna, si costituisce intorno alla storia di Yerma, data dal padre a un granitico pastore in sposa, desolatamente sola a desiderare prole, ancora più sola a doversi difendere dalle becere calunnie delle malelingue di paese eppure così forte nel perseguire il proprio desiderio materno tanto da sopportare l’onta di una presunta sterilità e di un’altrettanta menzognera infedeltà.
Se il primo atto viene costruito senza troppi filtri intorno ai temi centrali dell’aridità e della solitudine nei rapporti umani tracciando un solco stilistico scevro da interpolazioni drammaturgiche, il secondo sembra segnare un distacco tangibile rispetto al precedente laddove la presenza sulla scena dapprima di due singolari personaggi con parrucche, pellicce e tacchi a spillo e poi delle lavandaie con i tappeti in testa vira in una direzione che muta la sintassi scenica, in una forma più problematica rispetto a quanto visto prima; in questo senso il terzo atto stabilisce una vera e propria frattura di linguaggio con un richiamo esplicitato all’attualità mediante la scelta di modificare la spelonca della fattucchiera, in cui si conclude originariamente il rito propiziatorio di fertilità, con la “Clinica Cirinnà”, dove si è alle prese con grosse siringhe eiaculatrici e prelati ingerenti che dovrebbero far riferimento alle annose questioni morali intorno alla bioetica. Sarà infine lo stesso impulso di procreazione di Yerma, mutato in cieca ossessione dai continui rifiuti del marito e dai dogmi soffocanti della morale cattolica, ad implodere ingenerando un vortice di violenza e di sopraffazione che incatenerà la protagonista al suo tragico destino.
In questo coacervo di artificiose pulsioni e di grandiosi scenari onirici (il cui rischio di risultare estrinsechi rispetto al centro nevralgico testuale appare però assai forte) si intravedono molte delle potenzialità futuribili di Gianluca Merolli, giovane artista alla seconda regia dopo l’adattamento de Il Gabbiano di Cechov, i cui espedienti tecnici, in alcuni casi funzionali e stilisticamente lodevoli come l’utilizzo simbolico e immaginifico della sabbia o come la grande parrucca di fili ferrei scesa in scena, sembrano generati da un’istanza di spettacolarizzazione e/o forse dall’esuberanza del giovanile estro creativo che andrebbero asserviti con maggiore coerenza alle logiche drammatiche sulla base di una urgenza comunicativa e non solo iconografica – si pensi, una su tutti, ad una sorta di mechané con ganci e funi piovuti dal nulla che gli attori stentano a montare per rialzare dal palcoscenico Yerma seduta su una sedia.
Dunque, sebbene sia complicato dirimere totalmente la contrastante moltitudine di segni e movimenti scenici presenti all’interno dello spettacolo, è profonda la difficoltà nel sentirsi partecipi dell’intima passione che muove il dramma, sfigurato infine da quell’epilogo conclusivo per cui non bastano le gesta disperate di una Elena Arvigo – che riesce ad elevarsi dalle difficoltà strutturali della messinscena – a rivelare finalmente la potenza patetica della tragedia bensì un’enorme scritta sotto ai tappeti viene svelata per sovraccaricare il significato dell’atto estremo perpetrato da Yerma.
YERMA
di Federico Garcia Lorca
Regia: Gianluca Merolli
Traduzione e adattamento: Roberto Scarpetti
Attori: Elena Arvigo, Enzo Curcurù, Gianluca Merolli, Giulia Maulucci e Maurizio Rippa
Scene: Alessandro Di Cola
Costumi: Claudio Di Gennaro
Musiche: Luca Longobardi
Movimenti: Luca Ventura
luci: Pietro Sperduti