LAURA NOVELLI | Una visione sospesa tra reale e irreale. Un sogno di corpi, oggetti, atmosfere, note, luci e sagome di cartone  che rincorre la plasticità di una danza teatrale – o se vogliamo di un teatro danzante – dove lo spazio si fa luogo generativo irrinunciabile.

Parlo del lavoro “The Dubliners” che Giancarlo Sepe orchestra a partire da Joyce confezionando un’ennesima – e coraggiosa – prova della sua ricerca più raffinata. Ma parlo anche del luogo che in modo determinante permette e asseconda da decenni questa stessa ricerca: quel Teatro La Comunità che il regista fondò quarantaquattro anni fa nel cuore di Trastevere e che sin da subito si connotò come una delle cantine romane più attive, più produttive, più frementi di opere e operazioni originali. È qui che, ad esempio, mise radici un lavoro storico quale “Accademia Ackermann” (era il ‘78), capofila di quel precipuo stile registico che, già anticipato in “In Albis”, Sepe ha poi saputo sapientemente imprimere a molti altri lavori importanti.

Ancora vivide nella memoria ho certe immagini di “Cine H”, di “Favole di Oscar Wilde”, di “Ballando…ballando” (che pure è da annoverare tra gli spettacoli concepiti fuori dalla sala trasteverina). E cito questi titoli perché, nella vasta creatività di Sepe, mi sembrano quelli più avvicinabili, pur se per motivi diversi, a questa fluida incursione nel mondo letterario di Joyce che, già presentata in due tappe successive al festival di Spoleto (edizioni 57° e 58°), trova ora forma coesa in uno spettacolo assolutamente corale, dinamico, nuovo. Malgrado l’amaro sentimento di disillusione che ne deriva e malgrado la mesta riflessione sulla fragilità della vita umana che ne sottende la tessitura emotiva. 

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Tessitura affidata a nove giovani attori della Compagnia del Teatro La Comunità e al più maturo Pino Tufillaro, i quali recitano in inglese un intrecciarsi di relazioni mai così nette da non poter alludere ad una loro possibile universalizzazione e nel contempo mai così vaghe da non finire col comporre un malinconico quadro di umanità ingrigita dall’esistenza, dalla staticità sociale, dalle delusioni personali e storiche, da un oscurantismo religioso miope e opprimente. E se il materiale di partenza è rappresentato dal quindicesimo e dal dodicesimo racconto del libro (“The Dead” e “Ivy Day”), i protagonisti sono chiamati a trasfigurarlo in un corpo drammaturgico compatto, all’interno del quale essi si muovono all’unisono, tacciono per lunghi minuti, cantano (brano d’apertura è il celebre “It’s a long way to Tipperary”), ballano, mimano, si cambiano d’abito a vista (alludendo forse allo “spogliatoio” di casa Morkan citato ne “I morti”), maneggiano una schiera di manichini stagliati sul fondo.

Ma soprattutto essi (con)fondono mondo reale e mondo delle ombre, vita e morte, varcando il labile confine che ne determina la sostanza per capovolgere i più banali cliché del quotidiano. Lo spettacolo prende il via, non a caso, come una compassata veglia funebre. Gli interpreti stanno stesi a terra con le braccia incrociate sul ventre. Sono dei defunti/vivi adagiati attorno ad un grande tavolo/cimitero coperto di crisantemi colorati e il loro risveglio li immette nel mondo dei vivi ma li condanna a sembrare più morti dei morti (come dice Joyce stesso). Il cimitero è il loro scenario elettivo: intorno/sopra/vicino a quel tavolo, che è anche mondo e teatro, predispongono la cena per il ballo di casa Morkan (una delle scene visivamente più belle); intonano l’inno dell’Irlanda; raccontano ubriacature, illusioni politiche, il dramma dell’emigrazione, la carestia, un sogno d’amore giovanile spezzato per sempre (la toccante storia del ragazzo di Galway amato un tempo da Gretta). Il tutto facendo esclusivamente leva su una fisicità quanto mai espressiva, su un piglio grottesco da cinema russo d’inizio ‘900 e su un disegno coreografico curato nei dettagli.

Fuori dal coro si pone poi la figura di Tufillaro (attore storico di Sepe), qui alle prese con una voce narrante ironica e distante che probabilmente rappresenta l’autorità, la ragione critica, lo sguardo disincanto dell’autore e, in ultima analisi, la vicina Gran Bretagna. Ovviamente la musica (a firma di Harmonia Team e Davide Mastrogiovanni) svolge un ruolo fondamentale, così come le luci di Guido Pizzuti e i costumi di Carlo de Marino (anche scenografo), e attraversa tutto il lavoro costituendone la materia unitaria. Un leggero calo di ritmo si avverte forse solo nell’ultima parte, laddove però questo pregevole spettacolo, prodotto in collaborazione con la Compagnia Umberto Orsini e in replica fino al 24 aprile, regala ancora al pubblico la gioia di vedere dei giovani talenti (Giulia Adami, Manuel d’Amario, Luca Damiani, Loris De Luna, Giorgia Filanti, Pietro Pace, Federica Stefanelli, Guido Targetti, Adele Tirante) capaci di non risparmiarsi e di fare un gioco di squadra davvero egregio.  

 

Compagnia Orsini “THE DUBLINERS” Part 1 The Dead – Part 2 Ivy Day

Regia di G. SEPE

Interpreti: G.ADAMI,  M. D’AMARIO,  L. DAMIANI, L. DE LUNA, G. FILANTI,  P. PACE, F. STEFANELLI, G. TARGETTI,  A. TIRANTE

Partecipazione di P. TUFILLARO

Scene e costumi: C. DE MARINO

Musiche a cura di HARMONIA TEAM e D. MASTROGIOVANNI

Luci: G. PIZZUTI.

Aiuto scenografo: F. Iorio