ELENA SCOLARI | Si sa che le riunioni di condominio sono un ricettacolo dei peggiori istinti umani, ma nel palazzo parigino del signor Zy non c’è bisogno di aspettare l’assemblea: gli abitanti esercitano quotidianamente, costantemente, la loro attività di boicottaggio (oggi si direbbe più modernamente mobbing) nei confronti del povero Trelkowsky. Malaccorto inquilino che non si preoccupa di affittare un appartamento rimasto libero dopo il lancio dalla finestra della precedente abitante.
Le locataire chimerique di Roland Topor, è il romanzo da cui è tratto lo spettacolo. Topor, insieme a Fernando Arrabal e Alejandro Jodorovski, fonda a Parigi negli anni ’60 il gruppo Panico, movimento artistico che vuole indagare le vie della ricerca interiore, per liberare l’uomo dalle convenzioni emotive e farlo tornare a uno stato infantile di ribelle spontaneità.
Lo spettacolo L’inquilino di LAB121 si cimenta con queste idee di fondo nella trasposizione di un classico thriller psicologico, di cui è assai famosa la versione cinematografica di Roman Polanski (L’inquilino del terzo piano, 1976), non possiamo non citarlo per il merito di essere ancora uno dei film più acutamente spaventosi mai realizzati.
Il gruppo LAB121, conscio di non poter evitare i riferimenti, sceglie una strada profondamente legata all’interpretazione degli attori, più che alla costruzione di un’atmosfera generale, più difficile da evocare in teatro. Qui però è molto spiegato ciò che nel film si vede e nel libro è pensato.
Il protagonista (Michele Di Giacomo) subisce ripetuti piccoli attacchi da parte del padrone di casa e dei condòmini, che lo accusano di fare un gran fracasso, di invitare donnine allegre, di rendere meno signorile il caseggiato, di non essere puntuale con le rate, di rientrare troppo tardi… L’uomo scivola lentamente in un’ossessione persecutoria che si impossessa di lui, della sua mente ma anche del suo corpo, fino a non fargli (e farci) più distinguere cosa è una sua proiezione e cosa accade realmente.
Trelkowsky fa in tempo far visita alla precedente inquilina, Simonetta Schoule, gettatasi dalla finestra ma non morta, finita all’ospedale tutta fratturata e deceduta solo in seguito. Vuole vedere chi ha abitato i locali che lui sta per occupare. Un tremolio della donna e un unico occhio corrusco che, libero dalle bende, lo ha brevemente fissato, avrebbe dovuto insospettirlo…
Il vicinato finirà per stravolgere l’equilibrio e la consapevolezza d’identità di Trelkowsky, che diverrà sempre più tentennante, quel diabolico coacervo di esseri frustrati e infelici vuole che l’uomo si trasformi nella signorina Schoule, fino a portarlo alla medesima sua fine. Al bar del quartiere gli portano quello che beveva lei, le sigarette che fumava lei, l’inquilino trova i suoi vestiti (e non solo) negli armadi di casa… un piano perfetto.
Cosa non è perfetto, però, nel lavoro di Autelli? L’eccesso verbale per sopperire a un’angoscia che risulterebbe invece più tangibile e disturbante se meno raccontata e spiegata. Il protagonista condivide col pubblico molte delle riflessioni che nel romanzo sono pensieri, fino a rendere quasi una confessione, come se gli spettatori fossero tenuti a capire, a giustificare.
La forza dell’inquietudine però è più evidente se metaforizzata, piuttosto che verbalizzata. Bellissima è infatti la personificazione degli incubi e delle minacce: il padrone di casa Zy, l’amica di Simonetta (Alice Conti), il vicino di pianerottolo (Marcello Mocchi) indossano maschere di topo, maiale, corvo, e creano un vortice del terrore facendo girare Trelkowsky sul suo letto come in una tempesta della mente. Questo è un momento in cui l’idea registica rende pienamente l’effetto che vuole creare e trasporta il pubblico nello stesso turbine di sospensione, in bilico sulla soglia dell’irrealtà.
L’irrompere troppo brusco del Trelkowski/Simonetta, vestito da donna e reso in modo grottesco, stona con il travaglio interiore e con lo scavare sommesso ma crudele nell’animo dell’Inquilino per annullare la sua personalità, la trasformazione e lo smarrimento sono invece frutto di un processo graduale.
Se sono convincenti Michele Di Giacomo, un Trelkowsky deciso, e Giacomo Ferraù, uno scivoloso signor Zy, ingobbito e avido come Ebenezer Scrooge, meno lo sono i personaggi minori, eccessivi e non abbastanza sfuggenti.
La scenografia gira intorno a due elementi “d’arredo”: un porta bianca a due ante, girevole, che diventa centrale per i significati che riveste: la porta dell’appartamento ma anche la separazione dal mondo esterno, la soglia dei misteri inspiegati, l’ingresso per tutte le ansie; il letto, dove giace ingessata la suicida e dove il nuovo affittuario affronterà la bufera del suo equilibrio saltato. La regia di Autelli utilizza bene queste soluzioni e muove gli attori che non partecipano alla scena in corso lasciandoli vagare a fondo scena come fantasmi della psiche.
Il Condominio Panico è quindi specchio di una società sospettosa, intrigante e che isola un fittizio colpevole creando solidarietà negative allo scopo di soggiogare “lo straniero” chi non si allinea.
Occhio a chi incontrate sul pianerottolo.
tratto dal romanzo “L’inquilino del terzo piano” di Roland Topor
traduzione G. Gandini ©2004/2015 RCS Libri S.p.A. / Bompiani
adattamento e regia Claudio Autelli
con Alice Conti, Michele Di Giacomo, Giacomo Ferraù, Marcello Mocchi
scene Maria Paola Di Francesco
luci Giuliano Bottacin
suono Fabio Cinicola
assistente alla regia Lorenzo Ponte
organizzazione Monica Giacchetto, Camilla Galloni
comunicazione e promozione Cristina Pileggi
in coproduzione con Fondazione Campania dei Festival e Teatro del cerchio di Parma