ROBERTA ORLANDO | Nella sala Fassbinder dell’Elfo Puccini, il palcoscenico si tinge ancora di rosso, a quattro anni dal debutto di questo spettacolo firmato Francesco Frongia, ispirato alla biografia di Mark Rothko (1903-1970), pittore americano dell’espressionismo astratto.
Il setting è lo studio di Rothko (lo interpreta Ferdinando Bruni), ricostruito con cura dal regista. Lo riconosciamo dalla presenza di tele, barattoli di colore e strumenti da lavoro. Le luci si alzano e ci mostrano il pittore: siede in poltrona, in solitaria contemplazione di uno dei suoi dipinti. Il giradischi emette una variazione di Clara Schumann, che insieme alla luce soffusa, genera un’atmosfera intima, ma anche calda, avvolgente, in cui è facile penetrare. L’ingresso del secondo personaggio, il nuovo assistente Ken (un ottimo Alejandro Bruni Ocaña), avviene in punta di piedi e in silenzio, trasmettendo un’attenzione a mantenere la coerenza scenica ed emotiva di questa apertura.
Il contatto visivo tra i due cede il posto all’osservazione condivisa del dipinto di Rothko (i dipinti in scena sono stati riprodotti da Bruni), posto al centro del palco. Questo momento ci introduce alla poetica del pittore, per cui l’arte era principalmente pensiero, studio e attesa; l’attesa di una fusione tra tela e osservatore, una sorta di meditazione. Da questo nasce la ricerca di un “luogo”, di un santuario per i suoi dipinti, con la luce e l’ambiente di cui necessitano per “pulsare, muoversi, agire” su chi li guarda. Ma questi propositi hanno ben poco a che fare con il lussuoso ristorante Four Seasons di New York, al quale i murales sono destinati. Non da meno, questa commissione si scontrerebbe con il disprezzo dell’artista nei confronti della mercificazione dell’arte, nonché col suo desiderio di cura, protezione verso i suoi lavori.
A smascherare le contraddizioni e le debolezze di Rothko sarà proprio Ken, che con crescente disinvoltura, impara ad osservarlo, a parare i suoi colpi, per poi colpirlo a sua volta con quelle stesse armi procurategli dal maestro: lo lascia agire su di lui, spesso anche dominare, come i suoi quadri, ma allo stesso tempo, ne comprende le paure, le debolezze, lasciando che il tempo faccia la sua parte. Ad ogni scena, infatti, assistiamo al mutamento del rapporto e dell’equilibrio tra i due, fino al punto in cui Ken, da personaggio apparentemente passivo, intimorito, vincerà questo braccio di ferro portando l’altro ad ammettere la sua ipocrisia. Un’ipocrisia, quella di Rothko, dettata dalla paura di essere dimenticato, sorpassato. La paura che “il nero inghiotta il rosso”. Ma come egli stesso predica, il rosso e il nero devono coesistere, non essere in opposizione, per generare equilibrio, così come il bene e il male, l’apollineo e il dionisiaco.
L’incontro/scontro tra i due personaggi si fa metafora di una transizione inevitabile: l’avvento della Pop-Art sullo sfondo dell’opera, accentua il motivo di tensione di un artista che vede la fine della sua carriera e non si sente pronto.
Si parte da una relazione asettica maestro/allievo, ricca di provocazioni e giochi di potere, e se ne raggiunge una di tipo padre/figlio, in cui il primo procede verso la decadenza e il secondo verso la maturazione, con tutti i conflitti del caso.
Ci porta a riflettere sui punti di vista (ma non solo!) questo dialogo serrato in cui, come ci spiegava Frongia in un’intervista dell’anno scorso “i due personaggi discutono di filosofia, ma lo fanno mentre montano tele, mischiano colori, lavorano; così il pensiero si fa azione, che è l’emblema del teatro”. Un testo che conferma con successo la tendenza dell’autore, l’americano John Logan (che ha lavorato anche a sceneggiature come Il Gladiatore e Sweeney Todd), a frugare nella psiche dei personaggi, all’interno di una cornice di fatti di cronaca o, come in questo caso, biografici. La traduzione è stata appositamente curata da Matteo Colombo, che è riuscito a lavorare benissimo anche sull’adattamento alla messa in scena, in cui i dialoghi restano fluidi e attuali anche nella loro trasposizione linguistica.
Impeccabile la sintonia tra i due attori, primi responsabili della risolutezza dello spettacolo. Ricordiamo tra le scene topiche, quella in cui stendono il colore rosso sulla tela, come coreografando la musica classica che stanno ascoltando (Shubert), insieme, senza invasione di spazi, con energia e tensione al massimo.
Il resto lo fa la regia accurata di Frongia, le musiche (Glenn Gould, Chet Baker, oltre ai sopra citati, ma anche il suono della metropolitana di New York che divide le cinque scene, portando un tocco di stile urbano) e il contributo di Nando Frigerio, soprattutto in una pièce in cui le luci giocano un ruolo, anche narrativo, di rilevanza.
Un’ottima scelta dell’Elfo, quella di mettere in scena un altro notevole esempio di nuova drammaturgia anglo-americana, che Frongia ci racconta così: “Uno dei motivi di questa scelta è il tema del passaggio di esperienza, che stavamo trattando all’Elfo già da The History Boys. Inoltre, volevamo superare l’apparente difficoltà di rappresentare l’arte e la musica a teatro, e ci siamo riusciti con Rosso, come con Il Vizio dell’Arte di Bennett”.
ROSSO
di John Logan
traduzione di Matteo Colombo
regia di Francesco Frongia
con Ferdinando Bruni e Alejandro Bruni Ocaña
luci di Nando Frigerio
produzione Teatro dell’Elfo
in scena fino al 17 aprile