FRANCESCA DI FAZIO | Una scena messa a nudo: sulla parete di fondo il muro così com’è, sul lato destro del palcoscenico un grande tavolo di legno chiaro, intorno a cui siedono tre dei quattro attori presenti sul palco; la quarta è in piedi, al centro. Luci al neon. La ricerca di una dimensione prosastica di teatro, in uno spettacolo in cui si è voluto apertamente trascurare la dimensione dell’òpsis, dell’allestimento scenico, in favore del lògos: Prova è infatti uno spettacolo di testo, di parola. Prorompente è l’esigenza del dire in questo testo in cui si rincorrono quattro lunghi monologhi pronunciati ognuno da ciascuno dei quattro interpreti.

Nello spettacolo andato in scena sul finire dello scorso marzo al Teatro Due di Parma e poi al Piccolo di Milano, si assiste alla prova di un gruppo teatrale: ci sono il regista, le due attrici e il drammaturgo. Si chiamano Giuseppe, Anna, Laura e Luca – i nomi dei personaggi sono gli stessi dei loro interpreti (Giovanni Franzoni, Anna Della Rosa, Laura Marinoni, Luca Lazzareschi), i quali mantengono i propri nomi durante la messa in scena. Così motiva questa scelta Rambert, in un’intervista fattagli da Cristina Ventrucci posta a margine del testo Prova edito da CUE Press: «È una questione essenziale, che si rifà al metodo del real-time-work che abbiamo messo a fuoco con la mia compagnia. […] Una sorta di pratica dello scrivere parlando, in cui si recita a partire da un testo non scritto, che è ancora tutto nella mente. Nel corso di queste prove iniziali, non essendoci ancora i personaggi, non esistono nomi, così ci chiamiamo l’un l’altro con i nomi propri. La pronuncia del vero nome in un contesto di finzione porta dritto al nucleo identitario dell’attore. […] C’è un potere reale in questo, qualcosa che ha a che fare con l’essere chiamati, e che riguarda l’essere».

Il titolo originale dello spettacolo, testo e regia di Pascal Rambert, drammaturgo, regista e coreografo francese, attuale direttore del teatro parigino T2G – Théâtre de Genevilliers, è “Répétition”, termine usato per indicare le prove in teatro ma che comunica anche il concetto di ripetizione. Sono infatti le relazioni tra gli uomini, il loro unirsi e sciogliersi nell’impossibilità di una dimensione collettiva permanente e il ripetere gli errori il terreno esplorato da questa scrittura che si ripete anch’essa in numerosissime anafore, che fa riprendere a ciascun personaggio il discorso del precedente, per rimetterlo in discussione, per sviluppare un nuovo ed opposto punto di vista. Una scrittura che si perde e si ripete: si perde in mille domande, in dubbi ed interrogativi sia esistenziali che storici. Una scrittura che rinuncia completamente alla punteggiatura, eccezion fatta per il punto interrogativo. Una scrittura che si permette anche potenti asserzioni, che si abbandona a momenti di emotività deflagrante, che sceglie la parola diretta che fa scandalo, che vuole scandagliare i luoghi comuni e stabilire col pubblico un rapporto diretto, senza filtri.

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Nel proprio monologo ciascun personaggio affronta sia questioni storico-culturali-filosofiche, sia questioni più inerenti al proprio rapporto con gli altri membri del gruppo: insistito è il motivo della relazione che intercorre tra i quattro, relazione ora più che mai problematica, in bilico, una “struttura” che sta per cedere e disperdere le proprie radici, radici che affondano in un terreno formato dai sogni in cui prima tutti credevano, quei sogni che li hanno uniti in un rapporto di fede e amore (verso il teatro, ma anche verso il loro stesso esistere in quanto gruppo stretto da un legame), sogni che ora si perdono e si disfano.

Dichiara ancora Pascal Rambert: «gran parte del mio lavoro è dare forma all’oralità». Spicca infatti dal testo l’esigenza di trovare la parola esatta, una parola che sappia stabilire un rapporto diretto con la verità del reale. È questa, tuttavia, un’esigenza che non perviene ad una totale attuazione: non si dà mai una parola che sia “una volta per tutte”, non si afferma una parola che possa toccare e restituire la verità. Così, tutti e quattro i monologhi esprimono idee diverse e su di esse sembrano cristallizzarsi, come ad affermare che possa esistere una compresenza dialettica degli opposti. In un’epoca di crisi del linguaggio, in un’epoca che ha definitivamente voltato le spalle al confortante principio evangelico del Verbo, non rimane altro che «cercare la verità nella vita stessa».

Nel fitto coacervo di rimandi che solleticano la memoria culturale di chi ascolta (“parlare è sempre parlare sulle rovine” afferma Giovanni nel suo monologo), d’impatto è il finale appello ai giovani, una chiamata all’azione, a non abbandonare i propri sogni, a provare e riprovare, a rialzarsi da terra, da quella terra dove giacciono ormai, come dei cani, i loro “fratelli maggiori”. È l’ultimo personaggio a pronunciare quest’invocazione, e lo fa scendendo dal palcoscenico, camminando tra le file della platea: un gesto che potrebbe essere letto come una forma contemporanea di parabasi, un gesto che è sintomo di un più ampio tentativo di riportare il teatro alla dimensione politica originaria, in cui ogni spettatore è prima di tutto un partecipante.

Un’ultima considerazione: l’impostazione dello spettacolo, la scenografia spoglia, il tavolo come unico elemento scenico, la luce al neon, i quattro personaggi che non arrivano a realizzare la messa in scena dello spettacolo e si perdono a parlare del loro rapporto non ha potuto non far riaffiorare alla memoria il Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni del duo Daria Deflorian/Antonio Tagliarini, ma si tratta forse di parallele esigenze poetiche che rispecchiano l’ essere contemporanei.