Prove-Intrigo-e-amore1-512x341MARIA DOLORES PESCE | Dopo il fulminante esordio de “I Masnadieri” e “la Congiura del Fiesco a Genova” è il terzo dramma di un giovane Schiller già in fuga dalla gabbia di una vita altrove determinata, ed è, forse anche per questo, il dramma in cui la “Storia” è proiettata, o meglio è vista e narrata attraverso il filtro di una vicenda “privata”, un dramma “borghese” dunque, come recita il sottotitolo e nel senso più pregnante e allusivo che tale termine aveva in quella fine del XVIII secolo in cui fu scritto. Tragedia giovanile dunque e nella sua costruzione drammaturgica talora ridondante e anche verbosa, in una continua tensione sotto lo sforzo di dire ciò che preme ed erutta dalla interiorità dei personaggi, talora anche tendendo a travolgere la stessa struttura narrativa che nell’incoerenza incombente trova però assetti suggestivi e vie di significazione.

In “Intrigo e amore” risultano peraltro amalgamati e mescolati, più che contrapposti nella loro reciproca ostilità, i due principali e costituzionalmente paralleli piani della riflessione del drammaturgo tedesco, padre e si direbbe oggi-cofondatore dello Sturm und Drang, il piano della Storia, con le sue correlate espressioni di classe e sociali in genere, e quello dell’amore e dell’affettività, ivi compreso il “sentimento” religioso, fonti principali queste ultime di ogni riconoscimento di autenticità soggettiva ed esistenziale.

Ma appunto la forza di questa drammaturgia, ed anche la sua suggestiva e significante ambiguità, sta nel fatto che qui i piani si rispecchiano e si proiettano l’uno sull’altro, si confondono l’uno con l’altro ma rimangono paradossalmente ben distinti l’uno dall’altro e così innescano il meccanismo irresolubile del tragico.

Il confronto tra ragione (di stato) e sentimento, appunto tra intrigo e amore, non è più “tra” ma “in”, è introiettato e diventa contraddizione che da una parte muove gli esseri umani ma dall’altra li acceca. Così la capacità di affermare sé stesso, l’amore intendo, è intimamente ostacolata dalla introiezione di valori esterni, così forti da indurre Luisa Miller a rinnegare per prima quel sentimento che contrasta con il potere e la sua, in fondo accettata, organizzazione sociale.

Analogamente la sincera passione di Ferdinand è inesorabilmente minata dalla gelosia, una gelosia insensata non insufflata da uno Iago shakespeariano, ma quasi ereditata, se non geneticamente per educazione indotta.

Marco Sciaccaluga, nella nuova versione prodotta dal teatro Stabile di Genova che ha esordito il 12 aprile e sarà in scena al teatro della Corte fino al 1° Maggio, affronta con acutezza, e anche con una certa dose di coraggio, questo amalgama complesso riconducendolo alle sue linee essenziali ed universali, declinabili anche nei conflitti della contemporaneità, dagli impulsi libertari al conflitto tra padri e figli e anche a quello generazionale nei suoi impatti sociali e talora politici.

Conflitti che in effetti ancora oggi recuperano il desiderio di identità forti che è in fondo il desiderio di una autenticità che si ancori a valori non imposti. Il conflitto tra classi, che in Schiller occhieggia senza mai esplicitamente rappresentarsi e che allora si accendeva, con l’ascesa della borghesia ed il declino di una corrotta nobiltà, in modalità che abbiamo imparato a conoscere ma anche a dimenticare, sembra così ritrovare agganci profondi in una interiorità che nell’amore si rinnova.

In effetti già nell’epoca neo-classica o pre-romantica dello Sturm un Drang, e poi in quella pienamente romantica, la percezione e la rivalutazione del sentimento come moto dello spirito che fonda la singolarità dell’individuo è già una rivendicazione e una speranza di libertà rispetto alle maschere imposte dalla Storia, dal suo spirito e dunque dalla società che si evolve o meglio si involve e liquefa su valori meramente economici (il denaro è il nuovo nome del potere).

Sciaccaluga, a mio parere, si aggancia con la sua regia a questa percezione, animata anche dalla nostalgia per l’uomo “smisurato” che sfugge cioè alla misura imposta dal suo posto nel mondo, e su di essa sviluppa un percorso scenico di sottrazione di ogni spazio storico e storicizzato, evitando con intelligenza ogni naturalismo potenzialmente stonato a favore di un realismo che è nel senso complessivo della sua scrittura scenica.

È un lavoro, il suo, di accurata drammaturgia che si avvale di uno spazio scenico (la buca dell’orchestra di Miller padre) che riconduce all’essenzialità e razionalità di una partitura musicale la struttura della narrazione, che limita al giusto e al dovuto limature e riduzioni del testo, e che si appoggia ad una nuova traduzione (quella di Danilo Macrì) attenta a non forzare la necessaria revisione del linguaggio per mantenere ritmi, cadenze e anche gergalità laddove appaiono necessarie al senso complessivo. Una traduzione conscia della difficoltà conseguente allo scarto tra la romantica enfasi dell’innamorato e il contemporaneo deficit, soprattutto psicologico ma anche cognitivo, di “sentimento”.

È una drammaturgia infine che sa cogliere efficacemente il ruolo di transito ma soprattutto di collegamento che questo testo poteva avere tra il recupero allora in atto del Bardo e il nuovo teatro borghese che si andrà costituendo proprio nella indagine della interiorità e delle sue interferenze con la società.

L’esito, che evita di riproporre il taglio pienamente romantico e naturalmente melò del passaggio della verdiana Luisa Miller, non cede così al recupero meramente filologico e nemmeno all’ansia del ribaltamento, molto di moda, recuperando di Schiller il suo senso condiviso e ancora ampiamente condivisibile e appropriandosene come parte di un discorso estetico dai tratti personali, con sintassi che talora ricordano lo Squarzina genovese.

Ottimo l’énsamble che sa mescolare accentuati toni grotteschi, quasi da commedia dell’arte, ad enfasi romantiche in un alternanza che, a mio avviso, genera quello spazio tra personaggio e recitazione utile per assediarne ed espugnarne il senso più schiettamente scenico. A partire dai due protagonisti (il campo dell’amore) e cioè Simone Toni, Ferdinand, e Alice Arcuri, Luisa Miller, e dai loro spietati avversari Tommaso Ragno (Von Walter) e Andrea Nicolini (Wurm/Verme, il suo segretario) tra l’altro compositore ed esecutore in scena delle musiche originali. E poi Roberto Alinghieri, Mariangeles Torres, Enrico Campanati, Orietta Notari, Daniela Duchi, Nicolò Giacalone e Marco Avogadro.

I costumi sono ideati dalla brava Catherine Rankl mentre le luci sono curate da Marco D’Andrea, per un evento preceduto, come da recente e apprezzabile tradizione, da un breve concerto di brani verdiani (la “Luisa Miller” ovviamente) a cura degli allievi del conservatorio Nicolò Paganini.