GIULIA TELLI | L’Arancia meccanica tratta dal romanzo di Anthony Burgess e portata in scena da Gabriele Russo al Teatro Carcano di Milano, con un cast di sette attori, è una di quelle rare operazioni di contaminazione artistica riuscita.
Citando il titolo originale dell’opera, A Clockwork Orange, il regista riesce nella non semplice impresa di restituire sulla scena – inscatolata ma al tempo stesso smaterializzata in suggestioni visive di forte impatto, grazie alla sensibilità artistica dello scenografo Roberto Crea – un perfetto ingranaggio, pronto a far esplodere sullo spettatore tutto il marcio galleggiante di un mondo psichedelico, ambientato in una realtà distopica.
Il linguaggio scenico e il corpo dell’attore si mescolano con l’arte visiva e concettuale dell’installazione artistica. Le quinte stesse, parallelepipedi in legno lavorati con un materiale che ne restituisce una superficie grumosa a tratti simile a un paesaggio lunare, sembrano opere d’arte a sé stanti. L’omaggio a Kubrick serpeggia in tutto lo spettacolo, e non solo in riferimento al film in questione, ma anche a 2001: Odissea nello spazio, di cui ripropone, in varianti diverse, alcuni elementi chiave, come il famoso monolite nero, “porta” per un altro mondo: spinto dalla musica, Alex, il protagonista ben interpretato da Daniele Russo, accede a uno spazio immaginario, un’altra dimensione, il suo subconscio, dove sembra si svolga in realtà l’intera azione dello spettacolo. Già dal suo inizio, le quinte nere richiamano il parallelepipedo per forma e colore, così come i cubi entro cui si esplica la violenza dei tre drughi che comunicano tra loro attraverso uno slang inventato (il nadsat, mix di inglese colloquiale e russo): quello in cui i tre si presentano in una delle prime scene – “chiuso” da un telo di plastica trasparente, che Alex lecca come se fosse un cono gelato – come all’interno di una vetrina, immobili, in una beffarda posa sorridente, e quello in cui si consuma il pestaggio dell’intellettuale e lo stupro della moglie. Il quadro-scena consiste in una sorta di scatola bianca che avanza a rallentatore in proscenio, omaggio alle tipiche carrellate veloci e lente della macchina da presa di Kubrick, illuminata da luci cangianti che virano dal blu al viola, al verde acido alterando la percezione dello spazio.
Il regista dà vita a veri e propri tableaux vivant di matrice pop – la cultura d’immagine per eccellenza, di icone – che si spostano su binari all’interno della scena, come in flusso continuo di coscienza. Ma i parallelepipedi non solo possono contenere gli attori, ma anche far loro da “appoggio”. Per tutto lo spettacolo Alex e le forze istituzionali si sdraiano su rettangoli metallici, parlano in piedi su grossi quadrati, da cui salgono e scendono. Spazi contenitori, quindi, indicatori metatestuali, una “porta” per un’altra dimensione, quella interiore del protagonista in cui si consuma lo spettacolo della violenza o la violenza come spettacolo. Matrioske spaziali ed emozionali che richiamano diverse dimensioni, in cui realtà e incubo interagiscono senza soluzione di continuità.
Compiere atti di “ultraviolenza” procura loro una sorta di estasi mistica. La stessa estasi, allucinogena però, che deriva dall’assunzione di latte corretto mescalina. I paradisi artificiali son ben resi nella trasposizione scenica di Crea da sacche-mammelle pendenti dal soffitto – che ricordano l’opera dell’artista brasiliano Ernesto Neto “Leviathon Thot” – alle quali i tre drughi si attaccano per bere latte+.
Così come la violenza trasfigura e deforma il reale, anche la musica classica – co-protagonista nello spettacolo, anche qui, come in 2001 – viene sapientemente elaborata e distorta dal “metodo Morgan”. Colori e costumi travalicano il loro senso tradizionale (forse proprio per riaffermarlo?): la lotta tra l’istinto e la ragione, tra l’impulso individuale e quello collettivo, tra il bene e il male, tra il buio e la luce, tra lo yin e lo yang si esplica nel sapiente uso di un forte contrasto tra bianco e nero (tipico dell’optical art), che si carica di valenze simboliche. E così l’illuminazione bianca espressionista immobilizza i personaggi, “incastrati” tra le pareti nere dell’incubo lucido di Alex; il latte bianco, in antitesi al suo tradizionale simbolo di purezza, richiama invece in tal contesto il concetto di “malsano”, di “inganno”, è degenerato perché “migliorato” da droghe e quindi stimola violenza.
I drughi indossano eleganti smoking neri e bianchi, “sporcati” però da pellicce che rimandano alla ferocia degli animali primitivi, selvaggi. La violenza permea qualsiasi cosa. Giovani marionette grottesche si muovono schiacciate dalla società, la quale, invece di salvare coscienze, innalza un muro – che sulla scena di Russo si materializza nella scatola nera delle pareti e dell’inconscio di Alex – trafitto però dal forte contrasto del giallo di alcuni costumi, quasi a voler simboleggiare un urlo di aiuto o di forte presenza, una nota di “colore” positiva e di speranza, che ben si distanzia dal pessimismo cosmico kubrickiano, invitando a un risveglio delle coscienze del nostro tempo e alla non-violenza.
ARANCIA MECCANICA
di Anthony Burgess
Con Daniele Russo, Sebastiano Gavasso, Alessio Piazza, Alfredo Angelici, Martina Galletta, Paola Sambo, Bruno Tramice
Musiche Morgan
Scene Roberto Crea
Costumi Chiara Aversano
Regia Gabriele Russo
Produzione Fondazione Teatro di Napoli -Teatro Bellini di Napoli