MILENA COZZOLINO | Aprile 2016, La Piccola Compagnia della Magnolia presenta a Napoli, in una Galleria Toledo semi deserta, forse complice la partita di campionato della squadra della città, Hamm-let/Studio sulla voracità. È una serata di primavera e c’è la partita. Ma uno sparuto numero di spettatori decide comunque di entrare in teatro e spendere là un’ora, o poco più, del proprio tempo.
I presupposti sono buoni. Le critiche e i commenti sui social entusiastici. Così ci si predispone all’ennesimo viaggio teatrale. Seduti in platea, si parte. L’atmosfera è accogliente, gli attori sono là, ad attendere il pubblico. Quando tutti si sono accomodati, la macchina teatrale si avvia.
Sullo sfondo una tenda a losanghe bianche fa da sipario scenografico, su cui si proietta un gioco di ombre che, a seconda delle angolazioni da cui lo si osserva, appaiono alte e imperiose o allargate e maestose, ma che, pur nella loro sostanza fantasmatica, sembrano più vivide dei corpi veri, più parlanti e più influenti, così come lo sono spesso i fantasmi nei testi scespiriani.
Dalle fenditure dello sfondo escono anche tre iene, maschere dell’inconscio dei tre personaggi estratti dal dramma: la regina Gertrude, Amleto e Ofelia, che nel loro reciproco rapportarsi si sbranano vicendevolmente. Questo è il presupposto drammaturgico immediatamente svelato. Così parte il racconto di una tragedia ormai fin troppo risaputa e oggetto delle più disparate sperimentazioni teatrali (e non solo). Amleto è il dramma scespiriano per eccellenza e dopo ogni revisione sperimentale le parole del Bardo restano ancora così universali da offrirsi a qualsivoglia studio, oltre ogni cannibalica usurpazione. Il bagaglio che ci portiamo dietro è carico di Amleto ed Ex Amleto. Il dramma è pesante, ma Shakespeare resiste. E anzi, ogni volta il suo mistero ne esce rafforzato.
L’immagine degli attori mascherati da animali ci introduce, con un espediente teatrale non certo nuovo, nel mood di uno scavo psicologico ed onirico. Amleto non è una tragedia tout court è piuttosto un play come dicono gli inglesi, un gioco tearale, e in quanto tale schiude possibilità numerose. La riformulazione qui non è parodica, La Piccola Compagnia della Magnolia scivola verso la tragedia. Anzi, alza i toni, squaderna la tragedia, ci va a fondo scendendo nelle viscere intestine di quel mondo interiore sottaciuto, lasciato trapelare come mistero o tabù nell’opera del Bardo, e lo fa grazie ad una recitazione esasperata, che trova una chiave convincente sul piano attoriale, e nella quale si sente l’eco di un pianto tutto interiore che trabocca di confusione, di limiti che si travalicano, di quel desiderio anomico e amorale, che è reale solo nei sogni. La follia è nell’aria.
La voracità di Amleto e degli altri personaggi è dunque quella di un desiderio illimitato che tutto inghiotte, è il sangue che scorre come passione liquida che sa di sesso incestuoso. Davide Giglio, nei panni del principe di Danimarca, si aggira sulla scena con movenze e costume orientali, da samurai, potremmo dire. Il punto è che il segno resta uno tra i tanti non concertato: le musiche che non creano ambientazione, non rimbalzano nemmeno semanticamente. Da La partita di pallone di Rita Pavone all’indirizzo di Gertrude che lascia perplessi ad Almeno tu nell’universo di Mia Martini sul finale, in cui Amleto si riconosce in una sessualità ambigua, che appare forse addiritttura disascalica. Bella, invece, esteticamente ed espressiva da un punto di vista narrativo, l’immagine di Ofelia (Federica Carra) che annega il suo dolore in un mare di bottiglie d’acqua.
Insomma, Giorgia Cerruti ci invita a fare un viaggio preparato con cura, ma non ci dà le coordinate per giungere a destinazione. In questo modo potrebbe anche volerci costringere ad arrivare da soli, ma chi scrive, ad esempio, non ce la fa. Si perde prima, in un labirinto di segni che traboccano, in un profluvio barocco, che non è il barocco dell’epoca di Shakespeare, ma quello di cui parla Lukacs individuandone, dietro la maschera, il teschio dell’avanguardia. Un’avanguardia che ha fatto il suo tempo, così come la post-avanguardia. Noi siamo oltre ogni decostruzione. Oltre Lukacs e oltre Derrida. Lo spirito del nostro tempo, che affonda le radici nella crisi dell’oggi – una crisi economica e di idee in maniera correlata – imporrebbe uno spirito di ricostruzione che chiama in causa la capacità epica, e quindi di andare oltre l’accatastamento di segni su segni da passare al setaccio.
I nostri poeti dovrebbero cercare per noi altre storie possibili, magari prendendoci per mano e conducendoci a vedere altri scenari possibili. Potremmo forse tornare così ad avere i teatri pieni, come all’epoca di Shakespeare. Anche nelle belle sere di primavera. E quando c’è la partita, che, come dice Roland Barthes, è l’unica erede, nella società contemporanea, del potere aggregativo della tragedia greca.
Hamm-Let \ Studio sulla Voracità
regia Giorgia Cerruti
con Davide Giglio, Giorgia Cerruti, Federica Carra
produzione Piccola Compagnia della Magnolia
con il sostegno di Sistema Teatro Torino e Provincia
in collaborazione con Théâtre Durance / Scène Conventionnée
(Paca – France) e Corte Ospitale di Rubiera (Mo)