FILIPPA ILARDO | Teatri Stabili da salvare: la cronaca delle ultime ore non lascia dubbi sulla crisi sistemica che attraversa il teatro pubblico in Sicilia.
Emblematico il caso-Catania: debiti per sette milioni di euro o giù di lì, poltrone platealmente pignorate a scenario aperto, attività sospesa a tempo indeterminato, occupazione permanente da parte di dipendenti senza stipendio da cinque mesi, Durc negativo che non consente l’incasso di somme dagli Enti pubblici. Insomma un cane che si morde la coda. E mentre si aspetta l’assunzione delle responsabilità da parte di qualcuno, che sia l’ex direttore o il cda, un dato va valutato prima degli altri: ad un crollo finanziario è corrisposto una caduta progettuale, uno stallo artistico che ha portato al minimo storico degli abbonati. Mettiamola così, il tentativo di pignoramento delle poltrone non è che il più pirandelliano dei coupé de theatre che mette in scena il paradosso di quanto il Teatro catanese stesse già attraversando.
Situazione diversa a Palermo, dove la crisi finanziaria pur essendo grave, è ancora sotto controllo. Eppure un dato emerge nella sua entità: a dispetto dei continui tagli (a volta in corso d’opera) e le riduzioni dei contributi da parte degli Enti pubblici (Comune, Provincia, Regione), la direzione artistica di Roberto Alajmo, in carica dal Novembre 2013, si può leggere come una rinascita del Teatro pubblico a Palermo. I numeri parlano con chiarezza: si è passati da 1.450 abbonati, a circa 5.000 abbonati, facendo elevare il budget della percentuale proveniente da botteghino dal 3 al 10 per cento, mentre il tasso di riempimento per ogni spettacolo è del 93 per cento, il più alto di Italia. Eppure la situazione economica, pur non essendo al collasso, comincia a scricchiolare.
È per questo che sentiamo l’esigenza di una riflessione a lungo campo con Alajmo, non attanagliata dal dato di cronaca, ma in grado di offrire una possibile chiave di lettura del problema. Partiamo proprio da ciò che ha caratterizzato il progetto artistico di Alajmo: la capacità di creare connessioni con un territorio quale quello palermitano che, dal punto di vista teatrale, ha un fermento singolare, un pullulare di gruppi e compagnie che sperimentano con coraggio e coerenza, una propria poetica, una autorialità forte, un proprio linguaggio.
In questi anni il Teatro Biondo di Palermo è diventato la “casa” di artisti, attori, drammaturghi, registi, assorbendo e rilasciando energie e prospettive, mettendo in moto progettualità e non solo programmi.
Anche se storicamente seconda rispetto a Catania, Palermo è, negli ultimi anni, protagonista di una vivacità teatrale diffusa che fa registrare un numero molto alto di autori e compagnie conosciuti anche fuori dalla nostra isola. È stata una priorità dare “cittadinanza” ad autori come Emma Dante, Franco Scaldati, Mimmo Cuticchio, Lina Prosa, Roberto Andò, Davide Enia, Franco Maresco, Vincenzo Pirrotta, Claudio Collovà, Giuseppe Cutino, fino ad arrivare ai più giovani, Scarpinato, Provinzano, Civilleri-Lo Sicco.
Proprio perché da un punto di vista biografico non strettamente legato al mondo del teatro, il mio ruolo è stato quello di arbiter, con un punto di vista distaccato, super partes e senza partigianeria preconcetta. Questo ha consentito di avere autorevolezza, poter fare delle scelte libere e, spesso, anticonvenzionali, senza mai perdere di vista il pubblico.
Il pubblico ha sempre risposto positivamente. Come è cambiato negli ultimi anni il pubblico dello Stabile di Palermo?
Attraverso le scelte fatte, abbiamo scompaginato quelle caselle che dividono il teatro in settori: cabaret, avanguardia, prosa…
Il pubblico dei Teatri Stabili del passato era legato ad una condizione ricattatoria che vedeva nel teatro una forma di espiazione, un tipo di borghesia residuale che non esiste più, o che, nella deriva berlusconiana, ha ormai dissolto la vergogna dell’ignoranza.
Era necessario creare un nuovo pubblico del Biondo, un pubblico più giovane e ricettivo, e lo si è fatto cercando di alzare ogni anno l’asticella, evitando quell’avanguardia eccessiva che sarebbe rimasta incompresa, ma senza avere un’idea museale del repertorio. Ho immaginato la programmazione come il centro storico di Parigi: un centro storico che non è considerato intoccabile, ma continua piuttosto a rinnovarsi senza perdere la propria identità. Il risultato è che il pubblico oggi reagisce meglio alle proposte meno convenzionali, come Ricci e Forte, e con meno entusiasmo al teatro di tradizione.
Ritieni che la macchina amministrativa e gestionale degli Stabili sia sovradimensionata rispetto alle effettive necessità?
I teatri oggi soffrono di un sistema di regole elefantiache, come quelle sulla sicurezza, con un enorme dispendio di denaro ed energie. Il numero di dipendenti non è eccessivo, quanto piuttosto mal distribuito, mancano ruoli fondamentali cui bisogna continuamente fare fronte.
La crisi odierna degli Stabili ha radici lontane: nessuno dei due teatri siciliani è rientrato nei parametri per essere dichiarato Teatro Nazionale. Cosa non ha funzionato?
L’offerta artistica del Teatro Biondo presentata alla Commissione era molto forte, poco credibile è stato ritenuto il piano finanziario dei soci, non c’è stata insomma chiarezza della copertura. Ancora una volta, la responsabilità è di una politica assente e che elude tutti i problemi. So per certo che la proposta artistica del Biondo presentata alla commissione è stata giudicata molto positivamente. Evidentemente deve essere sembrato inadeguato il contesto economico e geopolitico. Abbiamo accettato la decisione della commissione nella consapevolezza che promuovere lo Stabile di Palermo a scapito di quello catanese sarebbe stato problematico. Fra un anno e mezzo speriamo di essere in condizione di riprovarci in condizioni contestuali migliori.
Credi sia necessario un ripensamento gestionale e territoriale degli Stabili? Ritieni sia praticabile in Sicilia quello che è avvenuto in altre regioni, cioè la fusione di più Enti? Esiste un tentativo di dialogo con altri teatri, Catania e Messina?
Il teatro italiano soffre della logica degli scambi. Soprattutto se il direttore è un regista, tende ad imporre le proprie regie come scambio. È un modo di intendere ciascun teatro come una satrapia. Difatti è successo in passato che registi molto ossequiati, non appena hanno dismesso la carica di direttori, sono stati completamente dimenticati dal sistema. Non per nulla l’intesa migliore l’abbiamo con teatri come Roma, Torino, Milano, Firenze o l’Emilia, dove il direttore non è anche regista.
Andrebbero individuate nuove forme di collaborazione che mirino alla valorizzazione delle eccellenze, di quelle realtà teatrali, di quegli artisti, che meritano di trovare spazio nei teatri pubblici. Mi riferisco alla Compagnia Scimone-Sframeli di Messina, per citarne solo alcuni, o a quella di Zappalà di Catania. Individuare quelle personalità artistiche e autoriali la cui fama ha già varcato lo Stretto e da cui si potrebbe partire per una nuova forma di condivisione.