ELENA SCOLARI | In un’aula bunker che ricorda il maxiprocesso antimafia di Palermo del 1986 si muovono i malavitosi di Brecht secondo la visione giudiziaria di Damiano Michieletto. Questa è l’imponente idea registica della magnificente produzione del Piccolo Teatro di Milano, istituzione teatrale che ospitò la celebre versione de L’Opera da tre soldi per la regia di Strehler nel 1956, presente Bertolt Brecht in platea, alla prima. Impossibile dunque che il pensiero non vada a quell’allestimento storico, ma i confronti – ingombranti – non sono sempre un giusto modo di guardare alle nuove realizzazioni di un classico, sgomberiamo quindi il campo, anzi, il tribunale dai paralleli col passato.
Anche per svincolarsi da questo rischio, Michieletto, conosciuto per le sue regie di opere liriche, decide per un’attualizzazione dell’Opera, lo fa con la scelta dei costumi e degli arredi di scena e con l’ambientazione “legal” della vicenda, che talvolta ricorda anche le riprese di Un giorno in pretura: alcuni personaggi recitano come al banco degli imputati, rendendo la loro parte una deposizione, la tribuna dei giurati è mobile e si sposta sulla scena così come lo scranno del giudice, ruolo ricoperto di volta in volta da diversi personaggi (ognuno di noi è giudice e giudicato…)

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Il punto di più evidente denuncia legata all’oggi è la scena in cui i mendicanti (ricordiamo che l’origine dell’Opera da tre soldi è la Beggar’s opera di John Gay, 1685-1732) che anelano ai ricchi pasti come moderni fiammiferai sono i migranti naufraghi con i loro giubbetti salvagente arancioni, oggetti superstiti che si elevano sopra i corpi morti. L’intenzione è lodevole ma il risultato è piuttosto retorico, e prevedibile.

Per il resto lo spettacolo procede per tre ore senza altri particolari guizzi inventivi, sentiamo la mancanza del tocco graffiante di Brecht, della spietata e ironica dialettica – per quanto schematica – che dà vita e acutezza al lavoro del drammaturgo, nella regia di Michieletto non c’è la sensazione della lotta, né di classe né di idee. La messinscena è curata, precisa e fedele nella lettera ma scolastica.
Nel programma di sala leggiamo che il regista ha volutamente scelto, come richiesto da Weill, attori che cantassero e non cantanti che recitassero, trattandosi però di un’opera musicale non sappiamo se ha fatto bene le sue scelte perché in tutti (tre le eccezioni di cui diremo tra poco) si avverte un certo disagio, una mancanza di disinvoltura nel canto che rende poco fluida l’interpretazione. Perfino Peppe Servillo non è suo agio, è un Peachum stranamente ordinario, Polly (Maria Roveran) ha una voce fresca ma esile esile, Marco Foschi è chiaramente un bravo attore ma non è abbastanza credibile nel ruolo del malfamato Mackie Messer, troppo pulito per ammaliare.
Svetta senza rivali la Jenny delle Spelonche di Rossy de Palma, la picassiana attrice dei film di Almodovar, thumb_571755253f3092c4198b463e_default_xxlargeche riempie la scena con un magnetismo carnale impareggiabile. Anche Margherita di Rauso (Celia Peachum) si distingue per carattere e un certo carisma. Sprecato è Giandomenico Cupaiolo, voce piena e presenza decisa, che però compare raramente nel ruolo di cantastorie, dagli abiti potrebbe essere Brecht che gironzola per controllare le genti della sua opera. Le musiche sono suonate dal vivo dall’Orchestra Verdi di Milano diretta da Giuseppe Grazioli, la partitura è quella originale di Kurt Weill, senza archi – tranne il contrabbasso – ma con tutti i fiati, il risultato fa sentire gli echi sincopati del jazz anni ’20, bello sarebbe stato vedere altrettanto ritmo e spezzettamento narrativo in scena, invece è più pulsante il golfo mistico che non il palcoscenico.

L’impressione complessiva è che questa Opera da tre soldi sia un compito ben svolto, un po’ noioso, dove è indubbio l’impegno di tutti (scenografi, costumisti, disegnatori di luci e coreografa compresi, tutti professionisti di alto livello) ma che ha perso di vista, in generale, la vena sferzante di Brecht, che diceva cose molto pesanti su capitalismo, banche e andazzi criminosi ma vestendole da operetta, proprio per creare lo straniamento attraverso il quale il pensiero si liberava. Brecht non voleva emozionare, tutt’altro, voleva spiazzare perché si fosse indotti a riflettere proprio dal modo inatteso di fare del teatro uno strumento di critica sociale.
Nella prima parte dello spettacolo Peachum assolda i mendicanti per il suo cinico racket dell’elemosina e dà loro un costume e una biografia fasulla costruita come un copione con le battute giuste per impietosire la gente. Questo è freddo analizzare il mondo. L’immagine, invece, dei migranti annegati è drammatica ma priva di distacco.

Quest’Opera da tre soldi ci sembra rimanere ingabbiata, ma siamo sicuri che Jenny nasconda una lima, nelle autoreggenti.

 

L’opera da tre soldi
di Bertolt Brecht
regia Damiano Michieletto
musiche Kurt Weill
direttore d’orchestra Giuseppe Grazioli
traduzione Roberto Menin
traduzione delle canzoni Damiano Michieletto
scene Paolo Fantin, costumi Carla Teti
luci Alessandro Carletti, movimenti coreografici Chiara Vecchi
personaggi e interpreti vedi Piccolo Teatro Opera da tre soldi
con l’Orchestra Sinfonica di Milano Giuseppe Verdi
in scena al Piccolo Teatro Strehler fino all’11 giugno 2016