LAURA NOVELLI | “Tutto era iniziato quando un giovane indiano, durante le prove del nostro spettacolo sul Vietnam, Us, pronunciò per la prima volta la strana parola Mahabharata. L’immagine evocata divenne per me un pensiero assillante. Due eserciti l’uno di fronte all’altro, impazienti di muoversi. Tra i due sta un principe che si chiede: Perché combattere?”. E’ nell’illuminante volume autobiografico I fili del tempo. Memorie di una vita (Feltrinelli, 2001) che ritrovo, a distanza di anni dalla prima lettura che ne avevo fatto, la genesi, la scintilla, la suggestione (era il ’66) da cui sarebbe scaturito uno dei massimi capolavori di Peter Brook. Quel Mahabharata lungo nove ore che nel 1985 rievocò, con un cast internazionale (vi figurava anche Vittorio Mezzogiorno) e un impianto scenico di eloquente nitore, il racconto epico dello straordinario poema indiano in un adattamento firmato dal regista stesso, Jean-Claude Carrière e Marie-Hélène Estienne che, dopo il debutto ad Avignone, venne replicato in numerosi Paesi, raccolse un successo unanime e prese spesso vita in spazi non convenzionali, facendo tappa persino sull’isola Bisentina del lago di Bolsena, dove ebbi la fortuna di vederlo.
Ne rimasi folgorata (e stessa cosa posso dire per i successivi approdi romani di Ta Main dans la Mienne, Giorni felici, Fragments). Ora, a distanza di trent’anni dal suo colossale spettacolo (da cui venne tratta anche una versione cinematografica di tre ore), Brook torna a quella domanda cruciale: “perché combattere?”. E torna alla grandiosa visione cosmogonico-metafisica del Mahabharata spinto da un’impellente necessità di interrogarsi, e interrogarci, sulla disfatta dell’Umano, sulla desolazione del mondo attuale, sull’insensatezza della guerra e della violenza contemporanee.
Ecco dunque Battlefield, un nuovo lavoro ideato con i collaboratori di sempre che distilla un unico episodio del complesso poema per tradurlo in una puntuale metafora del reale e, insieme, in un manifesto di poesia ed essenzialità scenica davvero encomiabili. Stavolta bastano settanta minuti per raccontare lo sterminio fratricida che annienta la famiglia Baharata: cinque fratelli, i Pandava, combattono contro i loro stessi cugini, i Kaurava, uccidendo i cento figli del re cieco Dhritarashtra e lasciando sul campo di battaglia “dieci milioni di morti”. Yudishtira, nipote del re, ne esce vittorioso e deve salire al trono ma la sua vittoria ha il sapore acre della sconfitta. Nessuno – tantomeno un uomo potente – può gioire di questo esito. Nessuna valida ragione potrà mai giustificare un tale bagno di sangue. I capi dubitano: “avremmo potuto evitare questa guerra?”.
E’ allora un bisogno di vita, di luce, quello di cui ci parla questo lavoro. Tutto però rimanda al tema dominante della morte. Una morte leggera eppure pervasiva. Mitologica eppure concreta. Minimalista eppure universale. Una morte allusa nel rosso sangue che domina la landa terrosa e spoglia (il campo di battaglia del titolo) in cui agiscono e parlano quattro imponenti attori/narratori, i bravissimi Carole Karemera, Jared McNeill, Ery Nzaramba e Sean O’Callaghan, chiamati ad interpretare i diversi ruoli dell’opera; a percorrere racconti ora cruenti, ora favolistici, ora spirituali, ora persino comici; a trasformare il dire in un rito semplice, popolare, cristallino.
Abiti estremamente sobri, mantelli dai colori accesi, bastoni in mano, essi, attraversati di continuo dalle belle luci di Philippe Vialatte, sembrano possedere la forza compassata dei griot africani. Il silenzio viene rotto ogni tanto dal tamburo del musicista giapponese Toshi Tsuchitori, l’elemento più “pacatamente” violento, più tumultuoso di questa danza discreta e intima che, nella sua pacifica armonia teatrale, è in realtà un deciso atto politico, un j’accuse saggio e disperato.
Il grande maestro inglese, come sempre e forse più di altre volte, qui scarnifica, asciuga, sottrae, ma in questa estrema sottrazione egli sa cogliere davvero il senso profondo e attuale del Mahabharata e insieme sa ricordarci il senso profondo e attuale del Teatro. Non per niente spetta proprio al tamburo salmodiante di Tsuchitori – quasi una musica tribale e funebre – aprire e chiudere questo intenso Battlefield che, visto all’Argentina di Roma in presenza di Brook stesso (e so di aver condiviso la mia grande emozione con tanti spettatori che hanno nutrito la loro passione teatrale grazie ai suoi libri e si suoi lavori), sarà nei prossimi giorni a Perugia, Firenze e Modena.
Riprendo in mano I fili del tempo. Rileggo ancora qualche passo. Trovo frasi che suonano profetiche: “Ogni giorno vi sono molti film sorprendenti, commedie, romanzi sugli orrori della guerra; ma a differenza di questi il Mahabharata non è negativo. Ci fa cogliere il significato primo del conflitto. Mostra che i movimenti della storia sono ineluttabili, che le grandi sofferenze e i disastri possono essere inevitabili ma che in ogni fuggevole momento si può aprire una nuova possibilità e la vita può ancora essere vissuta nella sua pienezza. Questo può aiutarci a capire come vivere, come attraversare l’età più oscura”.
BATTLEFIELD
tratto da Il Mahabharata e dall’opera teatrale di Jean-Claude Carrière
adattamento e regia Peter Brook e Marie-Hélène Estienne
con Carole Karemera, Jared McNeill, Ery Nzaramba, and Sean O’Callaghan
musicista Toshi Tsuchitori
musiche Toshi Tsuchitori – costumi Oria Puppo – luci Philippe Vialatte
Produzione C.I.C.T. – Théâtre des Bouffes du Nord
adattamento e traduzione a cura di Luca Delgado