GIULIA MURONI | È riconfermato il dodo come logo grafico del Torino Fringe Festival. Sui toni dell’azzurro, si rinnova – nella sua natura ibrida di teatro off ma non proprio – il fringe sabaudo che ha animato la prima decade di maggio torinese. Otto luoghi dalla vocazione non teatrale hanno ospitato il concitato succedersi delle performance e, insieme a quattro punti nevralgici del centro cittadino (Piazza Vittorio Veneto, Piazza Santa Giulia, Piazza Castello, Piazza Carignano), hanno fornito uno scenario composito alla kermesse torinese, ormai giunta alla quinta edizione.
Tra le performance osservate abbiamo scelto di segnalare il solo di Vittoria De Ferrari Sapetto, “088” co-prodotto da Dejà Donné e visto al CAP 10100. Gli spettatori vengono timbrati con un numero, senza alcuna spiegazione. Dentro una piccola stanza quadrata il pubblico viene fatto distribuire raso alle pareti e la danzatrice, indossando un lungo chador scuro percorre a piccoli rapidi passi il perimetro della stanza. Fissa gli astanti negli occhi fino a quando viene risucchiata, in un movimento vorticoso, al centro della stanza dove, attraverso una dinamica concentrica, svela prima le gambe, marchiate da piccoli numeri colorati e infine, ribaltandosi, si mostra in una nudità integrale. La chiusa è affidata a un’immagine forte: il corpo riverso su una parete, lo chador rovesciato, copre il viso, mostrando i genitali e la gambe.
Finita la breve performance viene richiesto al pubblico dove fosse situato nel corpo di Vittoria quel numero – diverso per ogni spettatore- che gli era stato impresso all’inizio della performance. A risposta corretta l’operatore ringrazia per aver guardato Vittoria sotto occhi diversi. Questa trovata ci lascia un po’ perplessi: forse che l’obiettivo perseguito fosse di far ignorare la nudità per concentrarsi su una visione micrologica dei vari numeretti qui e lì disegnati? La nudità in sede performativa peraltro è pratica talmente diffusa dall’essere di molto depotenziata nella semantica della cultura di massa.
La luce sotto cui si mostra Vittoria è intensa, gioca su una contraddizione forte, sulla percezione della donna islamica, sul femminile tra i poli di donna sottomessa o violata. L’operazione di sovvertimento dei materiali vuole mostrare la radicale grossolanità dello sguardo sul corpo femminile, e la performance è intessuta di segni che meriterebbero uno sviluppo ulteriore magari in direzione dell’articolarsi di una, seppur minima, partitura fisica che sorregga le interessanti e vivaci idee e la buona capacità scenica della performer.
Di tutt’altra natura è il lavoro di CRAB, storica compagnia piemontese, presente anche nell’organizzativo del Fringe. Il Garage Vian ha ospitato “Memoria del vuoto”, spettacolo a partire dall’omonimo romanzo di Marcello Fois, portato in scena da Pierpaolo Congiu. La vicenda del bandito ogliastrino Samuele Stocchino racconta le asprezze del servizio militare nel continente, le angherie subite dalla famiglia in sua assenza e le faide al suo ritorno. Pierpaolo Congiu, solo sulla scena, indossa un lungo cappotto e racconta in terza persona, riportando nei dialoghi le asperità dell’accento ogliastrino. La scena è essenziale: spoglia, vede scorrere sul fondale immagini campestri in movimento che, rarefatte nel tessuto mediale della proiezione grafica, diventano tratti astratti, lampi di colore. Dei brevi intervalli musicali contrappuntano la ricca narrazione di Congiu che domina la scena con abilità.
I racconti sul filo della mitopoiesi di una Sardegna rarefatta e ancestrale corrono il rischio di inciampare a pie’ pari in una rappresentazione stereotipata dell’isola, costituita più dallo sguardo altrui che da una propria identità la quale, per sua natura, richiede ampi e sfaccettati orizzonti di rappresentazione. Il testo di Fois, il quale ha peraltro conosciuto la drammaturgia, aiuta tuttavia a tenere una certa dose di distacco e consapevolezza rispetto a un equivoco cui si incappa facilmente, quando è la Sardegna a essere oggetto di narrazione. In conclusione, sono vari gli elementi di pregio: testo, impianto scenico e capacità attorale di Congiu si congiungono in una prova di ben maggiore levatura rispetto ai canoni medi del Fringe.
Questa è infatti la nota dolente: il Fringe è entusiasmante e vivace, ambizioso e vorace in questo tentativo di far vivere per dieci giorni spazi non teatrali della città, grazie alle energie di compagnie giovani. Tuttavia il pubblico latita e molti spettacoli – escludendo di netto quelli citati nell’articolo – non mostrano uno sguardo edificante sulla situazione teatrale italiana. Dilettantismo, lavori raffazzonati, penuria di creatività sembrano tristemente emergere come cifre che ricorrono. Certo che la scarsità di sovvenzioni non rende facile la programmazione, ma rinnoviamo con forza l’invito a concentrare le risorse su un minor numero di spettacoli, inseguendo così con nettezza un criterio di qualità che si distingua dalla diffusa congerie rumorosa e arrangiata dei molti media dominanti.