EDOARDO BORZI | DUE, dal 26 al 29 Maggio al Teatro dell’Orologio, non è solo il titolo dell’esito di un progetto di esercitazione e di condivisione artistica fra due compagnie diverse ma forse è anche il manifesto in scena delle ragioni etiche e politiche grazie alle quali è stato ideato lo stesso lavoro.
Un’azione di dimostrazione artistica e di impegno sociale attraverso un progetto solidale dal basso, condotto in uno spazio comune che resiste come l’Ex 51 a Valle Aurelia in Roma – luoghi fertili di conoscenza e apprendimento, luoghi autogestiti e centri sociali in cui è sempre più difficile creare arte a causa di continue diffide e relativi sgomberi. Dunque un atto estetico e politico in risposta alla proliferazione di una evidente quanto pericolosa condizione di estremo settarismo che serpeggia e divide luoghi di creazione e gli artisti in un sistema istituzionalizzato che sempre meno lascia spazio e possibilità a qualsivoglia interazione intellettuale e/o a una commistione artistica verticale, cioè fra contesti socio-culturali e individui di provenienza sociale diversa.
In DUE, terra di lavoro per due compagini teatrali, Compagnia Habitas, fondata da Niccolò Matcovich e Livia Antonelli ed Esercitazioni Invisibili, formazione diretta da Federico Cianciaruso, Cristiano Di Nicola e Simone Giustinelli, è stato possibile convivere in quel sogno di libera associazione che ha visto loro, giovani-ssimi artisti della scena romana, forti e coesi nel generare un’esperienza di comunione di idee, di pratiche e di bellezze artistiche e noi, spettatori distaccati, spesso ignari delle aspre lotte per quel pezzo di pane essere partecipi di una congiunzione tra due astri i cui estri brillano di pari lucentezza.
Uno di DUE: dallo “spudorato omaggio” a Karl Valentin e Liesl Karlstadt, celebre coppia di cabarettisti bavaresi della cui linfa artistica si nutrirà nella prima metà del XX secolo Bertolt Brecht, prende le mosse “L’imbroglietto”, corto teatrale di apertura firmato dalla Compagnia Habitas: Livia Antonelli e Niccolò Matcovich, nelle vesti sgargianti di due mimi parlanti, sono intenti ad escogitare un piano per entrare in teatro dove avrà luogo lo spettacolo successivo, forse per vedere il complesso teatrale, per attraversarlo oppure perfino per mangiarlo. Una composizione scenica surreale, diremmo di matrice dadaista, tagliata e ricomposta secondo un’ironia clownesca che si impernia sul lavoro meticoloso di rigorosa aderenza dei due attori rispetto alla forte caratterizzazione dei personaggi.
Un nuovo codice linguistico coniato ad hoc risulta l’elemento centrale nella rappresentazione, il lessico italiano rielaborato attraverso molteplici mutazioni fonetiche delle parole costituisce un vocabolario a sé facendosi strumento espressivo di grande portata caricaturale. La dialettica scenica non si esaurisce però nella parola ma trova mediante la complessità dei movimenti frenetici ma ben calibrati di scuola mimica un’ulteriore chiave comica. L’interrelazione emotiva tra i due interpreti diviene dunque vera e propria compenetrazione attorale, le due facce dello stesso simbolo si caricano di significati allegorici intensi e profondi in una prospettiva di ridanciana drammaticità.
Fra loro e l’ingresso a teatro si paventa lo spettro di un Macbook Pro, automa meccanico di sbarramento burocratico, l’emittente vocale di una signorina virtuale alla biglietteria che deve pur richiedere un prezzo da pagare perché si possa entrare a presenziare allo spettacolo. I due, pur di vivere quel mondo sì tanto agognato, sono disposti a mettere in gioco sé stessi e tutto ciò che hanno, perdere ogni cosa per avere quel poco che in realtà è il loro tutto: il teatro. Una denuncia satirica, con alcuni connotati di auto-critica, verso la situazione paradossale del teatro entro cui molti sono costretti a sottostare; un monito e al contempo un impulso a fare e a farsi resistenza alle condizioni di sfruttamento e di isolamento in nome del diritto di ogni attore, attrice, tecnico, critico, promotore stampa o regista di reclamare a gran voce la propria dignità umana e professionale.
Due di DUE: conclusa la propria messinscena, una volta sedutisi in platea, i due mimi parlanti si apprestano finalmente a toccare con mano la meraviglia del teatro. O MI AMI O TI ODIO (come mettere la solitudine in provetta con un atto di dolore), questo il (sotto) titolo del monologo interiore affrescato da Niccolò Matcovich per Simone Giustinelli che ne cura anche la regia. È lo strazio del silenzio esploso in versi sciolti, a prendere voce in sala, è il lucido delirio a tacerne ogni speranza di abiura. Buio in scena, un puzzo di sigaretta alberga nella stanza stretta, in fondo s’intravede solo una piccola luce rossa che ad ogni boccata si riempie piena. “A promise, is a promise” dice lei. Non le importa nient’altro che di quella fottuta gita in barca. Lei che tanto ha amato, lei che l’ha ingannato, lei che non può parlare se non attraverso la voce di lui essendo un’anima gemella siamese in simbiosi come un’appendice allucinante che nasce dalla testa e fuoriesce eterea in tutta la sua significanza. All’aurora dell’io onirico rinviene il sembiante di lui.
Nella folta barba si aggrappano parole fagocitate e tenute troppo a lungo dentro alle fauci prima di essere liberate in aria. I jeans neri e la giacca di pelle scura lo dipingono sulla tela scenica come un killer solitario a cena. Sull’unica sedia posta a capo della tavola preparata al consumo di un pasto frugale a base di rape rosse, pare solo eppure lo spettro di lei si muove per dialogare attraverso i ricordi delle speranze infrante riposte nelle sorde stanze del passato. Nella dimensione inesatta e caotica dell’inconscio il tempo della narrazione compie funambolici salti digressivi, è abile Simone Giustinelli nel mantenersi in armonia con le note della partitura psico-emotiva attraverso cui prende vita la messa in scena. L’attore e regista romano riesce a seguire l’andamento ritmico lento e doloroso e le tonalità vocali della quotidianità nei dialoghi immaginari senza falsificare le dinamiche comunicative fino a scatenarsi in un parossismo di rancore e collera, con un coltello affilato in mano che vibra stridulo sul tavolo metallico, teso a fendere l’aria mentre il corpo brucia acre di furore come l’odore di rape schiacciate in una rivolta di odio e sangue.
Cannibale del suo stesso dolore che trova nella propria fantasia l’unica via di libertà, l’attore, si inoltra nella lunga notte dell’obnubilamento, convulso e scatenato traccia il perimetro in cui si consuma il possibile disastro di quel naufragio relazionale. Durante la gita in barca, ricreata nell’interno metallico del tavolo ribaltato su un lato, ci guida onda per onda attraverso un mare sempre più aperto e pericoloso, il vero mare dove l’onda non può arrivare, un mare immobile in cui la disperazione inesorabilmente si tramuta in rassegnazione. La luce guidata dalla mano ferma di Federico Cianciaruso in lenta dissolvenza apre uno squarcio nel petto da cui fuoriesce un canto straziato di perdono che perdono non sa chiedere, l’acme tragico di uno spirito coagulato nella sua cristallina alienazione ridotto ad un flebile afflato disciolto nel sale delle proprie lacrime amare.
L’IMBROGLIETTO
(durata 20’)
spudorato omaggio a Karl Valentin e Liesl Karlstadt
di Niccolò Matcovich
con Livia Antonelli, Niccolò Matcovich, un MacBook Pro
produzione Compagnia Habitas
O MI AMI O TI ODIO
(durata 50’)
come mettere la solitudine in provetta con un atto di dolore
di Niccolò Matcovich
con Simone Giustinelli
regia Simone Giustinelli
luci Federico Cianciaruso
assistente alla regia Chiara Aquaro
produzione Justintwo, Esercitazioni Invisibili