ALESSIO DEGIORGIS | In principio era il cinema. Immagine che articolava il proprio movimento, inventando storie nel quale specchiarsi. Il telefilm semplificava questa vocazione, senza pretendere da se stesso più di quanto non potesse essere realizzato, con mezzi e idee più originali, dal grande schermo. Sono molteplici i fattori che hanno assottigliato, forse annullato, la distanza qualitativa fra cinema e serial televisivo. Quest’ultimo ha conquistato un pubblico sempre più esigente. A colpi di sceneggiature originali, attraversando i generi più disparati, forzando sino al punto di rottura le regole della televisione e della sua fruizione. Alcuni serial sono virali, sono oggetto di discussioni accese, li si riconosce, in certi casi, come pregiati saggi di filosofia per immagini. La serie inglese “Black Mirror”, ideata da Charlie Brooker, è partecipe di questo cambiamento e lascia lo spettatore turbato, ben oltre i titoli di coda.

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Superfici nere ci riflettono quotidianamente. L’immagine cupa che può essere intravista, e che spesso ignoriamo, merita più attenzione. I nostri computer, i nostri telefoni e televisori, quando riposano spenti, possiedono il fascino di uno specchio oscuro al quale abbiamo ceduto, almeno in parte, la nostra libertà. “Black Mirror” immagina il futuro per poter meglio raccontare le derive del presente. Lo fa ricollegandosi solo in parte alla tradizione precedente, rinunciando al citazionismo di genere, elaborando un mondo distopico inedito. Il suo percorso produttivo esemplifica bene la trasformazione del fenomeno “serie”. Prodotto dalla televisione britannica, “Black Mirror” conosce un successo crescente che lo porta ad essere acquistato dal gigante Netflix, già responsabile della consacrazione del programma in USA. In certa misura, dunque, sottratto al circuito televisivo tradizionale. Solo tre puntate a stagione, nelle quali non è riprodotta una vicenda puntinata da attese e colpi di scena. La struttura dello sceneggiato classico è scardinata a favore dello sviluppo di un’idea, segnata dall’iperbole e dal grottesco di episodi autoconclusivi.

Le storie di “Black Mirror” restano separate. Nessun incrocio, nessuna interazione fra i protagonisti dei singoli episodi. Montaggio alternato di vite di uomini e donne che godono crudelmente della condizione di spettatori isolati. Salvo poi riconoscere la propria debolezza e l’inconsistenza di una felicità illusoria. I desideri sono livellati, grazie ad essi un potere impersonale sorveglia e punisce. Ogni puntata costituisce un’audace provocazione diretta a un società che ha delegato molto, se non tutto, alla tecnologia. La politica, l’arte, il sesso e la morte sono incolori in un universo che si esprime con alfabeto binario. Viene da chiedersi se la qualità degli interrogativi sollevati da “Black Mirror” si conserverà anche nelle stagioni future (la terza è prevista per il prossimo autunno) o come spesso capita, i buoni spunti offerti dalla manciata di episodi finora prodotti finiranno per ripetersi vanamente.

La bellezza come promessa di felicità. La massima di Stendhal sembra imperitura. Anche un mondo tecnologico, ossessionato dall’efficienza, insegue un ideale estetico che immagina uomini e macchine armonicamente congiunti. L’idillio scade però nella farsa, causa lo squilibrio emotivo che permette di riconoscere l’uomo in preda ai soliti interrogativi primordiali, bisognoso di conferme, cure e sguardi complici. Si potrebbe scrivere la sinossi di ogni singola puntata ma ciò non aggiungerebbe nulla alla chiarificazione della tesi di fondo che sostiene ogni episodio. Dispotico è già il nostro presente, adulati come siamo da macchine indifferenti alle quali, causa esposizione costante, finiamo per assomigliare. Eppure debolezze umane troppo umane possono rivelare falle impreviste nel sistema, ci ricorda “Black Mirror”, imperfezioni che indicano vie di fuga da un incubo ad aria condizionata.