ANGELA BOZZAOTRA | La compagnia Fortebraccio Teatro nella stagione 2015-2016 è presente in territorio romano con ben tre spettacoli: Ubu Roi, I Giganti della Montagna e Metamorfosi. Un close up sulla poetica della compagnia e del suo regista e autore principale, Roberto Latini, intercettabile negli annali come l’enfant prodige del prolungamento del teatro di poesia, attore dalla raffinata tecnica vocale, formatosi presso la scuola di Perla Peragallo, a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta. 

Metamorfosi, ambiziosa maratona di circa quattro ore presentato al Teatro Vascello, di fatto è una summa dello stile della compagnia, un resumé frammentario di una visione dell’arte scenica che rappresenta un caso a sé stante nella sua specificità. L’opera intesa quale struttura aperta al tentativo e all’errore, lo spaziare tra il grottesco, il comico e il tragico, l’introspezione lirica e l’utilizzo di tecniche spurie nella direzione degli attori: ecco alcuni degli elementi cardine del teatro di Roberto Latini, spiaggia dove si arenano e attraccano una costellazione di figure, mitologie, iconografie e pratiche. Definirlo teatro di poesia o teatro coreografico poco cambia per una materia che sfugge alle classificazioni, aderendo alla sensibilità singolare dell’autore, e contaminandosi con le collaborazioni intercorse nel tempo. Di certo siamo di fronte a un teatro che abbraccia il minoritario e lo elegge a ragione poetica, andando incontro a una sorta di anarchia rappresentativa che lo differenzia dal teatro di prosa canonico.

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L’ineluttabilità del Fato e la solitudine dell’uomo al cospetto di forze occulte e sovrastanti, (su cui si imperniava i
Giganti della Montagna 2015, rivisitazione dell’opera pirandelliana che incontra l’allegoria da favola nera, dai contorni gotici) è il leit motiv delle Metamorfosi. Concepito per spazi non teatrali (prima rappresentazione a Castiglioncello nel 2015), lo spettacolo è costituito da dieci episodi (Narciso si ripete due volte indue prospettive differenti) ai quali donano il nome i personaggi e gli archetipi dell’opera di riferimento. Le scenografie tendono a creare dei fondali rifrangenti o velati e mutano costantemente, come il sound design che alterna composizioni malinconiche a momenti più sincopati. Dalla Peste al Corvo, passando per Ecuba e il Minotauro, i frammenti staccati presentano dunque toni e stili dis-morfi; un forte accento sulla contaminazione tra i generi – dalla tecnica butoh di Alessandra Cristiani, alle coreografie del gruppo Esklan Art’s Factory si accompagna a momenti di lirismo quali Orfeo e Narciso. In un rapporto non certo binario, ogni interprete assume più sembianze; cangiante è altresì il tono dei vari frammenti e il genere: si passa da momenti essenzialmente performativi a passaggi di teatro-danza quasi tradizionale (dunque con coreografie di gruppo), con una strizzatina d’occhio verso Oriente nei costanti richiami al butoh e al teatro giapponese. Se il ritmo e il gesto talvolta rallentano in un’improbabile Ovidio in kimono, talaltra ci si imbatte in puri atti comici e da teatro di strada, schiamazzi, vociare inconsulto e risate nervose.

I personaggi del mito abitano il microcosmo di Latini in una veste sgangherata; imparruccati, in tulle, avvolti dai costumi di Marion d’Amburgo, si agitano e si rivoltano inermi contro una catastrofe imminente, ma risulta ovvio che la catastrofe è già avvenuta da tempo, causando l’impossibilità del canto e della tragedia, sfumando l’epos in un gioco infantile, in una regressione ludica e aggressiva nel suo schernire la serietà della materia tragica. Ben diverso è invece il tono di frammenti introspettivi quali Narciso e Orfeo, i più interessanti insieme al corale e criptico Gli Argonauti. Nei due frammenti che prendono il nome dagli sfortunati eroi antichi, si di-svela la poetica più convincente di Latini, che ricorda i suoi Giganti della Montagna. Un blu scuro e melanconico sembra essere il colore di queste schegge di poesia, che hanno in comune il senso di perdita provocato da un amore impossibile o di un amore finito.

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Se in Narciso, ripetuto in due versioni dove si scambiano i ruoli Latini e Ilaria Drago, il perno della rappresentazione è l’amore ossessivo di se che esclude la possibilità di un terzo incomodo, in Orfeo è invece il τόπος della discesa agli inferi dell’inconscio per far pace con la constatazione dell’impossibilità di recuperare la propria moglie. L‘intera opera ruota attorno all’impossibilità di essere un Altro (da sé), di adempiere a un ruolo (riecheggiante il “Non siamo NOI” de I Giganti). La voce si rende vettore di senso, ragione irrazionale che danza in tormento e non si lascia domare dalla rigidità della maschera e dalla stilizzazione del maquillage. Il testo fa da medium, strumento che diviene una mitragliatrice (o una carezza) nelle mani di Latini. Metamorfosi è un paesaggio lunare che si impone nella sua iconografia a volte vivace a volte ibernata; al di fuori del microcosmo che trae ispirazione dal Mito per rovesciarlo, mostrando la fragilità e la disillusione di nasi da clown e amori perduti.

METAMORFOSI (di forme mutate in corpi nuovi)
da Ovidio
traduzione Piero Bernardini Marzolla
adattamento e regia Roberto Latini
musiche e suoni Gianluca Misiti
luci Max Mugnai
costumi Marion D’Amburgo
con Ilaria Drago, Alessandra Cristiani, Roberto Latini, Savino Paparella, Francesco Pennacchia, Sebastian Barbalan, Alessandro Porcu, Esklan Art’s Factory
direzione tecnica Max Mugnai
organizzazione Nicole Arbelli
riprese video Mario Pantoni
foto Futura Tittaferrante

produzione
Fortebraccio Teatro| Festival Orizzonti | Fondazione Orizzonti d’Arte
con il sostegno di Armunia Festival Costa degli Etruschi

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