MILENA COZZOLINO | La cifra predominante degli spettacoli internazionali dell’edizione 2016 del Napoli Teatro Festival Italia sembra correre lungo due direttrici: la mescolanza del teatro col cinema, o meglio con la videoarte – ossia con quel senso originario del cinema dei primordi tanto vicino al teatro da esserne la naturale continuazione – e la volontà di collocarsi in una posizione creativa originaria, quella propria della scaturigine di qualsiasi racconto.
ST/LL di Shiro Takatani, andato in scena al teatro Politeama di Napoli, raccoglie in sé e fa proprie queste due esigenze artistiche, probabilmente dettate dai tampi, e ci conduce in prossimità di quel gesto, tipico del teatro orientale, che riattiva una mimesi che è imitazione attiva e passiva, ossia quelle facoltà proprie rispettivamente dell’attore e dello spettatore.
Il termine inglese significa silenzioso, immobile, ma cosa più importante, il titolo reca il senso di un’interruzione, ST/LL, con quella barra al posto della i, è soprattutto quella fermata brusca che interrompe ciò che è immobile. È la ferita da cui si genera l’esistenza del tempo, il fermo immagine un attimo prima del big bang dell’anima. E infatti non manca l’elemento primigeneo per eccellenza, l’acqua che è motivo filosofico e scientifico della vita. Gli attori si muovono in connessione reale con la placenta ancestrale, ci sguazzano come se senza di essa nulla fosse possibile. Non c’è storia qui, c’è l’idea di un caos post atomico che ci conduce in un Giappone mescolato d’occidentalità. Dove la quotidianità dell’esistenza è scandita da pranzi, cene, sonni, che si consumano su tavoli dell’Ikea, tra forchette e piatti a buon mercato, i quali si trasformano in bouvette di stazioni metropolitane di un luogo qualsiasi del mondo, dove tutto è scandito da una ripetitività comune, quella di un metronomo, grazie a cui ascoltiamo la musica delle esistenze che scorrono silenziose e identiche accanto alla nostra.
Ascoltiamo l’eco del vuoto della modernità nel silenzio assoluto, nella sottrazione degli oggetti ai corpi, che però continuano a muoversi sulla scena in modo identico, nell’immagine della pioggia che è un pianto d’occhi che viene giù dall’alto. Tutto è splendidamente visivo, con un rimbalzo continuo dalla scena teatrale allo schermo ipertecnologico e slittamenti di senso continui. L’orchestrazione delle immagini non è sempre comprensibile, ma inchioda lo sguardo, riattiva la facoltà di codificazione dello spettatore e l’immaginazione creativa fa il resto quando siamo lasciati soli in una selva oscura di segni.
I corpi dei quattro attori, Yuko Hirai, Mayu Tsuruta, Misaku Yabuuchi e Olivier Balzarini, si muovono con perfetta sincronia sulla scena, le immagini video si mescolano ad essi fino a farli fluttuare nell’aria; il gioco dei corpi dietro il velatino che si confondono con le proiezioni ci regalano immagini da teatro delle ombre orientale. Mentre le maschere della commedia dell’arte ci portano in prossimità di quel teatro di figura nostrano. Tutto si mescola come un caos di forme belle, dove regina assoluta della scena è però la visione. La parola reca in sé la radice di quel verbo greco che nello spettacolo si declina in tutti i modi possibili: vedere, visto, veduto, visibile, visuale, video. La visione è ciò che per eccellenza fluisce e si oppone perciò a ciò che è immobile.
L’idea è però che all’origine delle forme d’espressione visiva ci sia sempre il corpo con i suoi gesti ad attivare quella facoltà empatica e dunque mimetica che ci coinvolge alla vista dell’immagine. Lo stesso corpo dell’uomo che può fermare il tempo con un click.
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