ESTER FORMATO | C’è una totale essenzialità sulla scena di Babilonia Teatri. In “David è morto” il cuore che s’illumina al fondo rende ancora più l’idea di uno spazio d’espressione scarno. C’è un teatro a quinte rimosse e dove è esplicitamente contraddistinto il ruolo e l’interprete, abolendo di fatto la mimesis come sola e unica dimensione del teatro e di conseguenza la quarta parete, c’è l’insistente frontalità con la quale procede lo spettacolo, c’è l’interruzione sul finale ex abrupto della fabula a vantaggio di una scomposizione e ricomposizione degli stessi ruoli/personaggi – per altro alcuni già morti – che riducono la stessa storia ad una notizia mediatica che funge da motore creativo per un pezzo da hit parade.
Cosa c’è dietro ad un doppio suicidio di fratelli entro una famiglia ai limiti dell’anaffettività, avviluppati nell’odierna incapacità di sfiorarsi? Dietro al macabro disagio di una provincia borghese del nord Italia ovattata da una squallida solitudine?
L’impressione che si ha al cospetto del lavoro di Babilonia Teatri è quella di un costante sforzo di ricerca drammaturgica ed interpretativa che protende ad uno scenario espressivo oltre il post-moderno, come se anticipasse una certa catastrofica implosione di linguaggi che, oggi come oggi, si profila compagna costante di chi siede in platea o cerca di comprendere in un modo meno superficiale la realtà, attraverso il teatro. Un dichiarato scardinamento di strutture narrative ed espressive, insomma, posto come unica condizione onesta di rappresentabilità del disagio attuale.
C’è da un canto una tessitura più o meno complessa di questo lavoro teatrale; lo apprendiamo dal lavoro espressivo verbale e corporeo degli interpreti la cui recitazione sembra incorrere in una monotona metrica da rap o da linguaggi televisivi, costellata da improvvisi picchi, e che riprende schemi mediatici o militareschi. Sono linguaggi-trappola dai quali nessuno dei protagonisti ne esce, rimando ad una realtà mistificata, violenta e scabrosa, priva della più semplice affettività. I rapporti fra i quattro membri della famiglia sono caratterizzati da freddezza e ostilità, da un guardarsi da lontano, un non riconoscersi che si traduce in sessualità aggressive o represse; si guarda dunque crescere un bimbo sotto lo stesso tetto che si evolve in giovane, un estraneo, un altro che non si sa più perché, ma ha lo stesso sangue. La liquidità relazionale che trova sfogo in una violenza autolesiva e non, serpeggia lungo tutta una storia familiare portata ad un punto estremo che – teatralmente – ne annulla l’esistenza, trasformandola in un complesso rock tra lapidi di giovani suicidi che sorgono sul palcoscenico.
Una costruzione drammaturgica plasmata, dunque, intorno questa svolta ex abrupto, la chiusa del sipario, l’annullamento del finale dell’intreccio e che si serve della vacuità linguistica dei nostri media, di citazioni pubblicitarie, di affastellamenti di materie scolastiche che appiattisce la parola a mo’ di declamazione di elenchi; uno svuotamento progressivo contro il quale la pratica teatrale non è qui denuncia, bensì sorta di esorcizzazione, volontà di inclusione sociale che diviene esperienza concreta degli interpreti.
Probabilmente tale aspetto, evidenziato anche da Alex Rigola sul libretto di sala, comporta una riflessione più che sullo spettacolo in sé, sulla necessità di quest’ultimo nel palesare, proprio attraverso l’imposizione di un teatro-specchio della vacuità sociale, proprio attraverso una costruzione narrativa che va verso l’impalpabilità, l’esigenza più viscerale dello stare su un palcoscenico, colta in maniera essenziale ed obiettiva, come autodeterminazione individuale e collettiva.
David è morto
da un progetto di Babilonia Teatri
di Valeria Raimondi e Enrico Castellani
parole di Enrico Castellani
collaborazione artistica di Vincenzo Todesco
con (in odine alfabetico) Chiara Bersani, Emiliano Brioschi, Alessio Piazza, Filippo Quezel, Emanuela Villagrossi
grafiche Francesco Speri
foto di scena Eleonora Cavallo
musiche originali Cabeki
David è morto è il ra