MATTEO BRIGHENTI | Le strade cambiano nome, e in questo, a volte, trovano anche una nuova direzione. A Sansepolcro, in provincia di Arezzo, via Giuseppe Mazzini, una traversa del Corso principale, era già via del Panico. L’unità di popoli liberi, l’Europa professata dal padre della Patria, disperde la paura di uscire di casa, che l’altro, il prossimo, sia il nemico.
Sabato 16 luglio Kilowatt Festival, a nostro avviso, ha percorso il medesimo tratto di fratellanza e uguaglianza per rispondere forte e chiaro allo Stato del terrore di cui siamo cittadini forzati, un appello di unità nelle diversità, cioè nel rispetto dell’identità e individualità propria e altrui, senza distinzione di sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali.
Due degli esiti, al debutto assoluto, del progetto Playing Identities, finanziato dalla Commissione Europea per creare interazione tra patrimonio artistico e spettacolo dal vivo, e l’ipnotico Season, l’anteprima nazionale di Giorgia Nardin, coreografa e performer indipendente, docente associato del Balletto di Roma, sono la conferma che il teatro non è un mondo a parte, ma è parte attiva della vita collettiva del nostro tempo, agente tra gli agenti del cambiamento (lo stesso vale per Mad in Europe di Angela Demattè su cui rifletterà per PAC Laura Novelli).
“Credo che, come direttore artistico, il mio compito”, mi aveva detto Luca Ricci a lato della nostra conversazione alla vigilia di questa quattordicesima edizione, “non sia compilare un cartellone, ma creare pensiero intorno al gesto teatrale, di orientarne le tendenze e dunque, sul lungo periodo, anche il peso e la relazione con la società tutta”.
“È tempo di risplendere” incita dai manifesti lo scatto di Mario Giacomelli, un bacio di luce e ombra che sta per scoccare: solo restando insieme possiamo unirci, accordare labbra con labbra e parlare un’unica lingua, ripetendo, duplicando il nostro reciproco splendore. Allora la selva oscura che circonda noi e loro, là nella foto, sarà un’accogliente camera chiara.
Il primo spettacolo di Playing Identities, This home is not for sale, nasce dall’incontro tra il regista britannico Harry Wilson e quattro allievi attori dell’Università Babes-Bolyai di Cluj, Romania, per indagare le contraddizioni legate a Roşia Montană, antico villaggio minerario, vittima diciotto anni fa della più grande operazione di estrazione dell’oro con il cianuro mai fatta in Europa, bloccata dagli ecologisti nel 2015.
Il chiostro di Santa Chiara, che ci accoglie nella sua luce naturale, è il set all’aperto di un quiz televisivo condotto da una presentatrice tutta pepe e lustrini, con tre concorrenti dietro tre panche rialzate da terra (le loro postazioni), e ai lati due angoli di piante accatastate. Tra applausi e risate registrate rispondono a domande sulla politica, la musica, la storia della Romania, quanto si stava in fila (sei ore), ai tempi della dittatura, per due chili di arance.
La chiave satirica non rende però graffiante come vorrebbe la critica al regime, alla compagnia di estrazione romeno-canadese e alla locale classe politica responsabile di costringere la popolazione di Roşia Montană a lasciare casa, ricordi, tradizioni, per il profitto di affaristi senza scrupoli. Gli allievi attori raccontano il dramma di centinaia di innocenti in un succedersi di situazioni e avvenimenti non proprio chiaro e risolto, passando dal quiz alle proteste e rivolte sindacali. Slogan urlati rimbalzano dalla scena ai romeni del resto della troupe.
“Qual è il nostro futuro? Uniti?” This home is not for sale si accende di intensità quando Dan-Ştefan Pughineanu, dopo forse uno scontro tra manifestanti, stringe la bandiera della Romania tra le mani: quella stoffa è tutto, il vento, i proiettili, il bene e il male fatto per conquistare il bene. Pareva volerla strappare e invece ora la piega con cura, come per consegnarla a un parente di una vittima di guerra.
Infine, tolti i costumi e rimasti in nero, i quattro si abbracciano, chiamano tra loro due spettatori, li stringono, e dopo li lasciano soli davanti a tutti, avvinti. La bandiera della gente, brandita dal popolo, è una famiglia di sconosciuti che si riconoscono in una stretta del cuore.
Il secondo lavoro di Playing Identities visto a Kilowatt è (Un)trapped – Identity or Death?, creazione di Sadurní Vergés, regista e drammaturgo catalano scelto da un gruppo di studenti dell’Accademia di Musica e Teatro di Vilnius per parlare della Lituania di oggi.
Al primo piano del Museo Civico, nella sala delle sinopie, i disegni preparatori usati per la pittura a fresco provenienti da alcune chiese di Sansepolcro, tre attori e un’attrice alternano al racconto da cartolina del loro Paese, proiettato in video sul fondo, la sofferta ‘preparazione’ sentimentale di un ragazzo omosessuale. Nei momenti promozionali le luci sono dei caldi colori della bandiera nazionale, nel teatro della realtà sono fredde e anonime.
Due appendiabiti pieni di giacche e pantaloni e una panca usata anche come porta di ingresso e uscita tra le diverse location, segnalate con appositi cartelli, sono gli elementi con cui costruiscono una narrazione leggera e violenta, ironica e sognante. Sono presenti in tutto, a loro stessi e alle situazioni, hanno gli occhi vivi e attenti dei circensi che cercano sempre l’aiuto del compagno per riuscire nella propria evoluzione.
Il ragazzo gay, cacciato di casa dal padre, si ritrova a Berlino dove, complice un clown, incontra una ragazza lesbica che lo introduce nella città in cui “ha iniziato a vivere veramente”. Diventato finalmente se stesso, si dedica ad aiutare gli altri, scrivendo lettere a chi, come lui, è stato discriminato.
In Lituania, infatti, l’omofobia è avallata dai politici anti-europei, che spesso utilizzano espressioni di odio e presentano il patriottismo e il razzismo come concetti identici.
La scrittura, l’esperienza fisica delle mani che inseguono i pensieri sulla carta, nella sublimazione del teatro diventa un passo a due, da uomo a uomo, uno scappare, che riporta però l’uno nelle braccia dell’altro, una fuga e un’altra ancora per poter sentire forte la mancanza e tornare più velocemente a colmarla.
Come This home is not for sale anche (Un)trapped – Identity or Death? si chiude con un abbraccio, una sorta di riparazione tra padre e figlio, tornato nel frattempo in patria per un confronto diretto, fisico, con il genitore. L’identità, dunque, è la somma delle differenze che ci rende uguali.
Amarsi è stare di fronte o accanto? La forza concentrica di Season di Giorgia Nardin scandisce con trascinante bellezza che il legame sta nel passaggio dall’uno all’altro stadio, perché l’uno è l’altro.
Quando entriamo nel piccolo Teatro alla Misericordia quattro giovani performer già girano in tutti gli angoli del palcoscenico (un rettangolo bianco chiuso sui lati da quinte nere e un velatino in fondo), è un’onda continua al ritmo dei soli passi, che disegnano grandi otto intersecati. Una ripetizione con accumulazione che da Fase di Anne Teresa De Keersmaeker arriva fino a In girum imus nocte (et consumimur igni) di Roberto Castello.
Aumenta la fatica, aumenta la velocità, ma la frenesia lascia incredibilmente imperturbabili i volti. La musica, all’inizio più flebile di un accenno, per questi atomi che ruotano intorno al loro nucleo, il movimento, è il Canone in Re Maggiore di Johann Pachelbel, di solito usato per l’ingresso della sposa in chiesa. Le prime battute, distorte e mandate in loop ossessivo, cadenzano quasi un corteggiamento di donna con donna, uomo con donna e uomo con uomo. Si toccano, si sfiorano, si accompagnano.
La loro essenza è essere lì dentro, nell’unità mobile dei corpi, quando escono dal gruppo, prima uno, poi in due, poi in tre, che siano fermi o no, perdono il loro centro e anche il viso si fa tirato, trasfigurato, finché il giro non li attrae di nuovo a sé.
La luce sale rossa sul fondo e la musica da ripetitiva si apre a tutta la sua lunghezza e durata. Si danno quasi le spinte per continuare a girare, respirare, e sopra il rosso compare l’azzurro. È il gruppo cha fa gli individui, non il contrario. Nessuno deve restare indietro.
Dopo tutto, passata e tornata la musica, c’è anche il bagliore, la possibilità di un sorriso. Se prima non si guardavano ora, invece, sì, e si aiutano anche al di fuori del giro. La strada che ognuno sembrava prendere per sé adesso la intraprende per gli altri: lo slancio è per andare più lontano, non per ripetere, ma per cambiare.
Il rosso dell’alba nascente ha riempito tutto l’azzurro. Cadono dall’alto ritagli d’oro, una manna che si appiccica ai corpi madidi di sudore, una pioggia sempre uguale e diversa. I ritagli diventano il pavimento, l’equilibrio si fa incerto, instabile.
Allora si bloccano, nello stesso istante, ai quattro poli del palcoscenico, e mentre continua a piovere e Pachelbel è suonato così forte da stridere, i loro occhi fissi negli occhi sembrano dire: ovunque cadrai io ti rialzerò.